Ritratti di santi

Moltissimi erano abituati a chiamarlo semplicemente: «El Padre», e avrebbero sottoscritto volentieri l'entusiastico giudizio di un vescovo: «E' stato per il XX secolo ciò che Francesco d'Assisi e Domenico di Guzmán furono per il XIII e Ignazio di Lodola fu per il XVI». Riportiamo la biografia di san Josemaría Escrivá.

Ritratti di Santi,

Antonio Maria Sicari*

SAN JOSEMARÍA ESCRIVÁ (1902-1975)

Versione audio a cura dello stesso Sicari (40' e 34'')

Il 6 ottobre 2002, per la canonizzazione di Josemaría Escrivá, circa trecentomila fedeli si riversarono a Roma, provenendo da 84 Paesi di ogni parte del mondo. Moltissimi erano abituati a chiamarlo semplicemente: «El Padre», e avrebbero sottoscritto volentieri l'entusiastico giudizio di un vescovo: «E stato per il XX secolo ciò che Francesco d'Assisi e Domenico di Guzmán furono per il XIII e Ignazio di Lodola fu per il XVI».

Ma lui, don Escrivá, avrebbe accettato un simile riconoscimento solo per - la sua Opera (meglio, per quell'Opera che era di Dio), pur continuando a considerarsi nient'altro che un povero e inutile servo, secondo la lapidaria iscrizione che avrebbe voluto far incidere sulla sua tomba: « Josemaría, peccatore».

Spesso, presentandosi a qualche assemblea di suoi figli, aveva detto familiarmente: «Sono un povero peccatore che ama follemente Cristo», cercando di spiegare con tale formula come sia possibile anche a un peccatore - se si innamora di Dio - dare origine a imprese pazze.

E, infatti, «pazzia» fu spesso giudicata dagli uomini la sua opera nella Chiesa.

Era nato a Barbastro, in Aragona, nel 1902.

L’amore folle — quello per cui ci si consegna totalmente e per sempre alla persona amata - era sbocciato nel cuore del piccolo Josemaría già primissimi anni di vita, alimentato dalla preghierina semplice, ma assoluta, imparata dalla mamma e ripetuta poi ogni giorno di vita, matti-: sera: «Io sono tuo, nacqui per te. / Che vuoi far, Gesù, di me?».

Più tardi il bambino avrebbe scoperto che quel suggerimento materno era un ritornello composto da santa Teresa d'Avila in una poesia destinata al canto: Vuestra soy, para vos nací. / ¿Que mandais hacer de mí?

Padre Antonio María Sicari parla di San Josemaría Escrivá nel programa "I santi" su RETE 4

Un'infanzia già segnata da un leggero tocco di spiritualità carmelitana, dunque.

Non ci sembra, perciò, strano il metodo scelto da Dio per donare a Josemaría un primo cenno vocazionale. Era un freddo mattino invernale, durante le vacanze natalizie del 1917-18. Nevicava ormai da giorni e un manto bianco ed uniforme ricopriva case, prati e strade. Josemaría, sedicenne, contemplava quell'intatto candore, ma i suoi occhi erano affascinati dalle orme di piedi nudi lasciate da padre José Miguel, un frate carmelitano scalzo che ogni mattina all'alba si recava a celebrare la Santa Messa nel vicino monastero.

«Si può dunque seguire Cristo con una dedizione totale», si disse il ragazzo. E si mise alla ricerca di quel frate generoso e austero, scegliendolo come guida spirituale. Imparò così la preghiera fedele e profonda, la dolcezza della Comunione quotidiana, la vita sobria e penitente, possibile - nella semplicità — anche a un ragazzo.

Ma non divenne carmelitano, come il frate gli suggerì; e non perché volesse sottrarsi alla vocazione, ma perché sentiva che la risposta di Dio a quella sua quotidiana preghiera («Che vuoi far, Gesù, di me?») non era ancora giunta.

Di solito, l'orientamento vocazionale di un giovane prende forma quando egli si pone seriamente la domanda se consacrarsi o no a Dio, se scegliere o no il ministero sacerdotale, se stringere o no un deciso legame affettivo.

Per Josemaría la questione vocazionale si pose in maniera non usuale, e perfino paradossale: il ragazzo si orientò decisamente al sacerdozio, ma non per sistemarsi in tale stato - dal quale anzi istintivamente rifuggiva - quanto per disporsi meglio ad ascoltare la voce che Dio avrebbe potuto rivolgergli.

«Mi sono fatto sacerdote», spiegherà poi, «perché pensavo che in questo modo mi sarebbe stato più facile compiere una volontà di Dio che ancora non conoscevo». Così l'antica infantile preghiera assunse, sempre più insistentemente, la forma dell'invocazione che il cieco di Gerico rivolse un giorno a Gesù: «Signore, che io veda!».

C'era una particolare saggezza in questa strana esperienza del giovane Escrivá. Accade spesso, infatti, che tante vocazioni restino incompiute perché i chiamati si accontentano della prima voce che li attrae verso un certo stato di vita (Sacerdozio? Vita consacrata? Matrimonio?), ma poi non si chiedono più a quale particolare compito sono personalmente e irrepetibilmente chiamati da Dio.

Così molte vocazioni restano generiche e prive di nerbo profetico.

Josemaría, invece, divenne prete per poter accogliere una vocazione che sentiva premere dal profondo del cuore, anche se non sapeva come si sarebbe concretizzata. E, per essere ancora più disponibile, abbinò gli studi ecclesiastici a quelli necessari per ottenere una laurea in legge. Voleva essere pronto a tutto.

Per poter finalmente «vedere» il disegno di Dio su di sé, a volte, la preghiera si modificava leggermente e diventava: Domine, ut sit (oppure, rivolta teneramente alla Santa Vergine: Domina, ut sit...}: «Signore, [Madonna,] che accada...». «Che accada...» che cosa? Josemaría non avrebbe nemmeno saputo formularlo. Aspettava.

Divenne prete a 23 anni e ottenne la «licenza in legge» a 25. Fu prima cappellano in due parrocchie rurali, poi cappellano in un «patronato per malati».

Più tardi ricorderà d'aver speso gioiosamente, in quei primi anni di sacerdozio, «molte migliaia di ore» per preparare alla prima confessione e alla prima Comunione centinaia e centinaia di bambini, e d'esser-si formato alla sua missione frequentando abitualmente le corsie dell'ospedale, ad assistere e confortare malati, anche infettivi e incurabili.

«Signore, che io veda!», continuava a ripetere Josemaría in quei

primi anni di generoso ministero. E «la visione» accadde.

Era la mattina del 2 ottobre 1928. Josemaría - che stava trascorrendo un paio di giorni di ritiro in una casa dei missionari di San Vincenzo de' Paoli - rileggeva i suoi appunti, assorto in preghiera. A un tratto «vide» chiaramente la missione che Dio gli affidava. Si trattava di annunciare nuovamente alla Chiesa una verità antica eppur dimenticata: la perfezione evangelica è per tutti; tutti i cristiani - senza di distinzioni di età, di sesso, di razza, di stato o condizione di vita - sono chiamati alla santità.

E si trattava non solo di proclamare questa verità, ma di renderla praticabile soprattutto ai laici: il mondo in cui essi erano chiamati a vivere non era un ostacolo, ma una vocazione; il lavoro non era un'obiezione, ma la materia stessa della santità laicale.

Sgomento, don Escrivá vide anche la propria assoluta inadeguatezza al compito e le innumerevoli incomprensioni e sofferenze che lo attendevano.

Molti anni dopo, quasi sul finire della sua vita, durante un incontro pubblico in Brasile, risponderà così a un'interrogazione sugli inizi dell'Opera:

«Ti sembra una pazzia da poco dire che si può e si deve diventare santi nel bel mezzo della strada? Che possono e devono diventare santi il venditore di gelati col suo carrettino, la collaboratrice domestica che passa tutto il giorno in cucina, il direttore di banca, il professore universitario, il contadino, il portabagagli...? Tutti chiamati alla santità! Tutto questo è stato poi raccolto nell'ultimo Concilio, ma a quel tempo - nel 1928 - non entrava in testa a nessuno. Quindi... era logico che mi ritenessero pazzo... Adesso sembra una cosa naturale, ma allora non era così...».

E infatti Josemaría si spaventò. Si trattava d'intraprendere una missione senza confini («Come un mare senza sponde!», dirà): mettersi «a lavorare con Dio» per la santificazione del mondo.

Opus Dei (Lavoro di Dio): fu un nome che non gli venne subito in mente, ma glielo suggerì il padre spirituale che, in quei primi mesi, gli chiedeva notizie su come procedesse quell'Opera di Dio che aveva intrapreso.

Opus Dei era dunque il nome adatto per chiarire subito, a sé e agli altri, che se non ci si metteva all'opera collaborando strettamente con Dio, non c'era niente da sperare.

Perciò Josemaría si mise lietamente alle dipendenze di un tale Divino Lavoratore. Prima di procedere oltre, dobbiamo soffermarci a comprendere bene il carisma di fondatore, concesso da Dio a Josemaría Escrivá, anche se lui soffrirà sempre a sentirsi chiamare con questo titolo e spesso commenterà, non senza umorismo, d'essere stato un fundador sin fundamento, un fondatore che non aveva nemmeno le basi per esserlo.

La questione, dunque, non era quella di dire che tutti i cristiani potevano diventare santi: questo era sempre stato affermato, e c'erano sempre stati nella Chiesa alcuni santi laici; nel calendario cristiano si incontrano anche re, regine, militari, cacciatori, contadini, calzolai...

Ma la persuasione comune era, però, questa: per farsi santi bisognava in qualche modo allontanarsi dal mondo, staccarsi dalle sue contingenze e dai suoi interessi e avvicinarsi, almeno spiritualmente, a monaci e preti, a frati e suore: solo costoro facevano, strettamente parlando, «professione di santità».

In verità, nella storia della Chiesa, c'era già stato qualche maestro più chiaroveggente (come, ad esempio, san Francesco di Sales) che aveva delineato una certa spiritualità per i laici, ma l'aveva, comunque, fatto adattando a loro - nei limiti del possibile - la spiritualità monastica; non aveva offerto loro una vera «spiritualità laicale», costruita con i materiali di cui è fatta la vita dei laici.

Questo, appunto, fu ciò che Escrivá vide quel mattino: Dio gli mostrò «un mondo cristianizzato dai laici», ed egli si sgomentò perché -se si tornava indietro nei secoli - non c'era molto che riguardasse i laici in fatto di dottrina teologica o ascetica o giuridica.

Bisognava, eventualmente, ritornare ai primi tempi del cristianesimo, quando esisteva ancora una sola forma di vita cristiana per tutti, una sola santità, una sola pienezza di vita...

Ad essere logici si finiva nel paradosso.

Infatti, era ormai una convinzione acquisita che la «comunità cristiana primitiva» fosse l'ideale di riferimento per gli istituti monastici e religiosi. Ora Josemaría sorgeva a dire che esso era semplicemente l'ideale concreto secondo il quale bisognava pensare il mondo, amandolo in tutte le sue concretezze e in tutta la sua complessità.

Che si trattasse di una richiesta diretta di Dio divenne ancor più chiaro a Escrivá, quando si accorse che le cose non procedevano affatto secondo la sua sensibilità e le sue inclinazioni. Che un giovane prete radunasse attorno a sé studenti e professionisti per donar loro una educazione alla santità nel mondo era un compito che lasciava prevedere una levata di scudi in campo ecclesiale e civile, una marea montante di derisioni, calunnie, ostacoli.

Pensare di farlo - sul finire degli anni Venti - anche con ragazze e studentesse, tradizionalmente ben confinate nelle loro case, era una pretesa insensata, oltre che pericolosa.

Da qui la prima ferrea decisione di don Josemaría: «Nell'Opera non ci dovranno mai essere donne, neppure per scherzo», e non si trattava di misoginia, ma di sano realismo.

Ebbene, passano pochi mesi e, mentre sta celebrando la Messa, egli

«vede» che dell'Opera dovranno far parte anche le donne, costi quel che deve costare.

Successivamente, nel 1931 la «visione interiore» dell'Opera si precisa con altre due particolarissime esperienze spirituali.

La prima gli accade nella festa della Trasfigurazione: mentre sta innalzando l'ostia durante la celebrazione della Santa Messa, Josemaría intuisce con forza travolgente il significato delle parole di Gesù: «Quando sarò innalzato da terra attrarrò a me tutte le cose». Capisce allora che «saranno gli uomini e le donne di Dio a innalzare la Croce di Cristo sul pinnacolo di tutte le attività umane... E vidi il Signore trionfare ed attirare a sé tutte le cose».

Più tardi ne farà l'oggetto di una meditazione per la Via Crucis: «Che belle le croci sulle vette dei monti, in cima ai grandi monumenti, sui pinnacoli delle cattedrali!... Ma la croce bisogna issarla anche nelle viscere del mondo. Gesù vuole essere innalzato proprio lì: nel rumore delle fabbriche e delle officine, nel silenzio delle biblioteche, nel frastuono delle strade, nella quiete dei campi, nell'intimità delle famiglie, nelle assemblee, negli stadi... Lì dove un cristiano può spendere la sua vita onestamente, deve porre col suo amore la Croce di Cristo, che attrae a sé tutte le cose».

Dopo alcuni mesi un'altra travolgente certezza. Jsemaría è per strada, in tram (dirà poi: «La strada non impedisce il nostro dialogo contemplativo; il viavai del mondo è per noi luogo di preghiera...»), ed ecco che si sente afferrare dalla certezza che abbracciare la Croce vuoi dire lasciarsi conformare a Gesù. Sente il Padre celeste che gli dice: «Tu sei mio figlio! Tu sei Cristo!», e si sente trasportato a esclamare, a ripetere ad alta voce, con piena verità, la stessa preghiera del Divino Maestro: «Abbà, Padre!». Gli altri passeggeri sul tram credono d'aver a che fare con un pazzo, ma Escrivá sa che la sua Opera ha ricevuto «il sigillo della filiazione divina».

Ormai è interiormente certo, ma non cerca di catturarsi dei collaboratori: s'immerge piuttosto nella preghiera e nella penitenza, e affida quel progetto di Dio alla preghiera dei bambini, dei tanti poveri di periferia che assiste personalmente, dei malati e dei moribondi, cui dona il suo conforto sacerdotale.

Ha alcuni amici tra gli studenti universitari e li invita discretamente a condividere il suo apostolato tra i derelitti.

Poi si ferma con loro in un localino dove offre una tazza di cioccolata calda («la migliore cioccolata di Madrid!»), e si perde a manifestare loro i suoi incredibili sogni di un apostolato fatto con la stessa materia del mondo.

Alle descrizioni «visionarie» di don Josemaría, i suoi giovani amici hanno le vertigini, tanto l'impresa progettata sembra folle.

Anzitutto i membri dell'Opus Dei avrebbero dovuto considerare il proprio lavoro come «la materia della propria santità», offrendo al Signore Dio il meglio possibile su questa terra e contagiando in ogni ambito i propri amici con la stessa santa passione.

Poi, mettendosi decisamente assieme, avrebbero diffuso a macchia d'olio questa concezione e questa pratica del lavoro, inteso come «strada di santità», e avrebbero seminato nel mondo innumerevoli «opere apostoliche»: centri di insegnamento cattolico a ogni livello, anche universitario; centri di formazione professionale spedalizzata; centri per la formazione di agricoltori, braccianti e operai; centri di assistenza medica in zone disagiate; centri per la promozione della donna..., e quant'altro.

Insomma, migliaia e migliaia di «opere d'apostolato», tutte avviate e gestite - a livello tecnico ed economico - dalla responsabilità personale dei vari membri dell'Opus Dei che, da parte sua, avrebbe garantito a ciascuno solo la necessaria formazione spirituale adatta ai laici.

A chi obiettava che si trattava soltanto di sogni, il Padre ribatteva: «Sognate, e la realtà sarà ancora più grande dei sogni».

In seguito, a distanza di molti anni - quando molti progetti saranno ormai divenuti realtà (oggi i centri professionali dell'Opus Dei sono 1.709) - i collaboratori della prima ora diranno di non riuscire a sorprendersi: don Josemaría aveva già descritto loro tutto, fin dai primissimi incontri.

Nel 1933 Escrivá diede dunque il via alla sua prima «opera apostolica» aprendo l'Accademia DYA. Il nome era attraente e misterioso: per «Accademia» s'intendeva allora un circolo dove degli studenti universitari potessero ritrovarsi per ricevere lezioni di approfondimento nelle rispettive materie. La sigla DYA era composta con le iniziali di Derecho y Arquitectura («Diritto e Architettura»), ma per gli iscritti essa significava anche Dios y Audacia («Dio e Audacia»), un motto che, secondo Josemaría, sarebbe piaciuto ai grandi santi come Teresa d'Avila e Teresina di Lisieux...

In quella prima casa - assai precaria dal punto di vista economico - si raccolsero alcuni studenti universitari: taluni professori disponibili proponevano loro corsi di approfondimento nelle varie materie e don Josemaría garantiva una formazione spirituale particolarmente seria ed esigente, in un clima di gioiosa familiarità. «Cerca Cristo, trova Cristo, ama Cristo»: era l'invito costante rivolto ai suoi giovani amici.

L'anno successivo fu cercato un edificio più grande dove alcuni studenti potessero anche abitare. Al mattino, quando gli studenti erano in Università, era Josemaría a garantire anche la pulizia degli am-bienti e i lavori di cucina.

Il primo gruppo di fedelissimi cominciava a compattarsi, mentre «il Padre» (così cominciavano ormai a chiamarlo) preparava per loro un testo di Considerazioni spirituali che in seguito sarebbe stato conosciuto in tutto il mondo col titolo di Cammino.

Non era un'opera organica, ma la raccolta di quasi mille appunti presi in circostanze e tempi diversissimi, durante una conversazione, durante la preghiera o durante una lettura: tutte massime o esortazioni tese a insegnare il dialogo con Dio e a mostrare la Sua attiva e innamorata presenza in ogni frammento di vita.

Anche il titolo scelto per la definitiva pubblicazione (Cammino) non intendeva indicare un itinerario compiuto, ma la strada quotidiana lungo la quale si snoda la nostra esistenza.

Intanto Escrivá rifletteva intensamente allo spirito che doveva animare l'Opera, al suo patrimonio ideale e anche dottrinale.

«Dall'inizio dell'Opera, nel 1928, la mia predicazione è stata questa: la santità non è un privilegio di pochi perché possono essere divi¬ni tutti i cammini della terra, tutte le condizioni di vita, tutte le pro-fessioni, tutte le occupazioni oneste».

Lo ricorderà sempre insistentemente:

«A quegli studenti e a quegli operai che mi seguivano negli anni Trenta io solevo dire che dovevano saper materializzare la vita spirituale... Volevo allontanarli dalla tentazione di condurre una doppia vita... No, figli miei, non ci può essere una doppia vita; non possiamo essere come gli schizofrenici, se vogliamo essere cristiani: vi è una sola vita, fatta di carne e di spirito, ed è questa che deve essere piena di Dio...».

E, per la prima volta nella storia, diventava centrale, in vista della pienezza della vita cristiana, la questione del lavoro: «Per la maggior parte degli uomini la santità consiste nel santificare il proprio lavoro, nel santificarsi nel lavoro e nel santificare gli altri per mezzo del lavoro, realizzando così l'incontro con Dio lungo la strada della propria vita».

«Cercare di essere i migliori in tutto, anche professionalmente»: era questo l'ideale che Josemaría proponeva (e lo esigerà sempre dai suoi amici e discepoli) non per coltivare la propria vanità, ma per essere seri col proprio amore: chi ama vorrebbe poter regalare le cose migliori, e il lavoro è il primo regalo che l'uomo deve offrire al suo Dio. Non può darGli un regalo meschino o incompiuto.

Spiegherà, a volte, quasi in forma di battuta abituale: «Se mi dicono che Tizio è un buon figlio mio - un buon cristiano - ma è un cattivo calzolaio, che me ne faccio? Se non si sforza di imparare bene il suo mestiere e di esercitarlo con cura non potrà santificarlo né offrirlo al Signore».

E sempre i suoi più stretti collaboratori osserveranno in Escrivá un profondo rispetto e una profonda ammirazione per ogni lavoro ben fatto, uniti a una somma noncuranza per il prestigio esteriore di certe professioni più elevate o più appariscenti.

Per dare un inizio deciso al suo progetto e formare davvero alcuni amici allo spirito e alle finalità dell'Opus Dei, Escrivá invitò i suoi giovani amici a un primo incontro presso un istituto di suore: si presentarono soltanto in tre!

Con grande serenità fece loro la sua proposta: legarsi liberamente all'Opera con un «contratto di fedeltà» che includeva la piena disponibilità del celibato, restando però laici e acquisendo una competenza professionale di livello universitario, che li abilitasse a molteplici forme di apostolato nel mondo, soprattutto negli ambienti della cultura.

Poi li condusse in una cappellina per dar loro la benedizione eucaristica. Confiderà in seguito: «Benedissi quei tre e ne vedevo trecento, trecentomila, trenta milioni, tremila milioni... bianchi, neri, gialli, di tutte le combinazioni che l'amore umano può fare. E mi sono sbagliato per difetto [...] perché il Signore è stato molto più generoso».

Nella vita di san Josemaría Escrivá non ci sono miracoli: c'è solo la costante capacità di vedere con certezza l'avvenire. In questo rassomigliava a don Bosco che, quando descriveva le opere che aveva in mente per i suoi ragazzi, veniva accusato di follia e non poteva che ribattere umilmente e testardamente: «Ma io le vedo...!». -

Nel 1935 alcuni amici fecero per la prima volta il «giuramento di fedeltà», col quale si impegnavano sul proprio onore - senza voti o promesse d'alcun genere - «a dedicare tutta la vita al servizio di Dio nella sua Opera», ed Escrivá si senti già pronto a disseminarli nel mondo.

A stroncare ogni progetto, ma non la speranza, venne la guerra civile e una persecuzione religiosa senza precedenti: in pochi anni vennero assassinati 13 vescovi, 4.184 sacerdoti, 2.365 religiosi, 283 religiose, alcune migliaia di «cattolici notori» e incendiati o distrutti circa 20.000 chiese e conventi.

Escrivá continuò il suo ministero a Madrid nascondendosi in case di amici "e rischiando ripetutamente la vita, poi fu costretto all'esilio: ' con un piccolo gruppo dei suoi intraprese lunghe ed estenuanti marce notturne per valicare a piedi i Pirenei e rifugiarsi ad Andorra.

Quando nel 1939 la bufera passò, Josemaría fu il primo sacerdote a tornare a Madrid: tutto sembrava schiantato, anche la prima casa dell'Opera era stata distrutta. Faticosamente aprì una nuova residenza universitaria. Vi trasferì anche la mamma e la sorella, che si presero cura delle faccende domestiche e diedero così alla residenza un'impronta familiare.

Già nel 1940 scriveva: «Penso, figli miei, a quanto ci resta da percorrere per seminare in tutte le nazioni, su tutta la terra, in tutti gli strati dell'attività umana il seme cattolico e universale che l'Opera è venuta a diffondere».

Nel frattempo però la guerra aveva travolto l'Europa, e così Escrivá si dedicò a «rievangelizzare» la Spagna, predicando ritiri in tutte le diocesi e contagiando innumerevoli amici col suo entusiasmo.

Nacquero così in varie città spagnole diversi «Centri dell'Opera», che Escrivá definiva «focolai d'incendio», e si moltiplicarono le vocazioni.

Crescevano gli amici e crescevano anche le ostilità di tanti, soprattutto in ambiente ecclesiastico. Cominciarono a diffondersi strane calunnie, finché apparve chiaro che era in atto una vera campagna denigratoria. Alcuni dicevano che don Escrivá ingannava i giovani proponendo loro la «santità nel mondo», distraendoli così da una giusta e santa vocazione conventuale e tenendoli in uno «stato di allucinazione» spirituale.

Altri aggiungevano che, per sua colpa, si svuotavano seminari e noviziati. Altri sospettavano che egli plagiasse i giovani (praticando l'ipnosi e l'occultismo), obbligandoli al segreto su certe oscure pratiche cabalistiche o riti sanguinari (si diceva addirittura che venissero usate delle croci nere sulle quali lasciarsi crocifiggere). Altri avvertivano i genitori che i figli erano caduti nelle mani di una setta eretica, o forse di un «ramo giudaico della massoneria». E già negli uffici di polizia si parlava di arresto, e negli uffici di curia montava il pettegolezzo e il disgusto verso quel prete orgoglioso e fanatico.

Molti anni dopo, a Buenos Aires, rispondendo a una domanda sulla croce che i cristiani a volte si addossano l'un l'altro, don Josemaría ripenserà a quella tremenda campagna denigratoria in cui si era cercato di togliergli l'onore umano e sacerdotale e dirà:

«E se vi insultano? Più di quanto sia toccato a me credo che sia impossibile... come uno straccio! Arrivò un momento in cui una notte dovetti andare davanti al Tabernacolo e dire: 'Signore' - e mi costava, mi costava, perché sono molto superbo, e mi cadevano giù certe lacrime... - 'Signore, se tu non hai bisogno del mio onore, io perché lo voglio?'».

Già in quegli anni, con il solito umorismo che non gli veniva mai meno, ma con verità, diceva dei suoi persecutori: «A forza di raccomandarli a Dio li ho presi in simpatia!»

Del resto era sua persuasione che le persecuzioni fossero il mezzo scelto da Dio per rinsaldare l'Opera: «Sapete perché si è sviluppata tanto?», diceva ai suoi collaboratori. «Perché l'hanno trattata come un sacco di frumento. L'hanno presa a calci, l'hanno maltrattata. Ma il seme è cosi piccolo che non si è rotto, anzi si è diffuso ai quattro venti...».

Per fortuna l'arcivescovo di Madrid lo difendeva con ostinato amore di padre, e non mancò di fargli avere la sua approvazione anche giuridica, mettendolo al riparo.

Un'altra «visione» o illuminazione venne nel febbraio del 1943. Da tempo si sentiva il bisogno di sacerdoti che assumessero la diretta cura spirituale degli affiliati all'Opera, ed Escrivá non sapeva davvero come orientarsi.

Nel 1943 improvvisamente comprese: anche il sacerdozio è «un'opera di Dio», un «lavoro di Dio» - tale è stata la Croce di Cristo e tale è la Messa che ogni prete celebra -. In questo senso anche i preti potevano avere il loro posto specifico in un'opera tutta laicale, e la loro specifica vocazione non li allontanava in nulla dagli altri membri dell'Opera:

«Nell'Opus Dei sono tutti uguali. C'è una sola differenza: i sacerdoti sono più obbligati degli altri a mettere il loro cuore per terra, come un tappeto, affinché i loro fratelli possano camminare sul soffice».

Fondò, dunque, la Società Sacerdotale della Santa Croce, chiamata così proprio perché innalzare la Croce nelle viscere del mondo è il compito comune di tutti i fedeli e tale compito viene esplicitamente mostrato nella celebrazione della Messa.

In vent'anni saranno circa un migliaio i membri dell'Opera la cui vocazione sacerdotale maturerà a partire da un'attività professionale già consolidata, quasi come ulteriore specificazione e approfondimento.

E di tutti Josemaría dirà con fierezza: «Ho pregato tanto da poter affermare che tutti i sacerdoti dell'Opus Dei sono figli della mia preghiera».

Nel 1946 Escrivá comprese che doveva avvicinarsi anche fisicamente al cuore della cristianità, perché solo a Roma potevano essere affrontate e risolte le questioni vitali per il futuro dell'Opera.

Ma c'era bisogno di una decisiva dilatazione interna.

Così, oltre ai membri celibi (detti «numerari»), pienamente disponibili alle attività di apostolato dell'Opera, si decise di aprire le porte anche a fedeli che non potevano garantire una piena disponibilità apostolica (detti «aggregati») e a membri sposati (detti «soprannumerari», che avrebbero dovuto con temperare la loro disponibilità alle attività apostoliche con gli obblighi familiari.

La definitiva approvazione pontificia venne nel 1950 ed Escrivá era riuscito a ottenere che l'Opera potesse accogliere nel suo seno persino «cooperatori» non cattolici e non cristiani. Non cessavano tuttavia le polemiche.

Anche se a Roma l'Opus Dei godeva di forti amicizie e della stima incondizionata di molti vescovi, benché il papa non facesse mai mancare la sua paterna e affettuosa attenzione e continue attestazioni di stima al fondatore, non mancavano calunnie e maldicenze ad alimentare la vecchia «leggenda nera».

Persisteva la fatica di molti a capire una forte aggregazione di cristiani (addirittura celibi!) che non volevano però essere né religiosi né consacrati, ma laici autonomi nella loro responsabilità e tuttavia fortemente coesi nella vita, negli ideali, nelle opere.

La loro dedizione e capacità di realizzare innumerevoli «opere apostoliche» faceva sorgere interrogativi su una feconda gestione economica che non si sapeva come spiegare: era troppo difficile da credere che il denaro provenisse da un ininterrotto flusso di carità che coinvolgeva centinaia di soci disposti a privarsi dei propri beni per il sostegno dell'Opera (e giungeva ugualmente denaro da ricchi industriali e da poveri contadini, operai, bambini, anziani, malati). Ma ancora più difficile era credere all'estrema povertà in cui gli stessi responsabili accettavano di vivere per anni.

Non molti seppero, ad esempio, il prezzo degli umani sacrifici con cui fu pagata la costruzione, iniziata nel 1948, del Collegio Romano della Santa Croce, centro internazionale della formazione dei membri dell'Opus Dei, ai Parioli.

Molti anni dopo Escrivá racconterà: «All'inizio ci sono stati momenti in cui facevamo un solo pasto al giorno, ed anche questo quando si poteva. E quasi non c'era posto per dormire: avevamo soltanto un letto che veniva occupato da chi occasionalmente era malato; tutti gli altri ci coricavamo dove si poteva, laggiù, in quella portineria ora scomparsa. Per parecchi anni sono dovuto salire sulle impalcature per poter dormire in una stanza qualsiasi. Non siamo mai stati bene...».

Nei Processi di canonizzazione si legge:

«Per sette anni, dal 1946 al 1953, il servo di Dio non poté disporre né di una stanza, né di un armadio proprio. La stanza che si era scelta, d'altra parte, era forse la più piccola e la peggio ubicata di tutta la casa: ricavata dallo spazio precedentemente occupato da un bagno, misurava tre metri per tre, era senza ventilazione diretta, scomoda e rumorosa, con il mobilio essenziale. Non permise neppure che sul letto gli mettessero un copriletto, fin tanto che non ne fossero provvisti tutti gli altri letti della casa; ciò che accadde solo nel marzo del 1964».

E si sta parlando di un uomo di età già avanzata e spesso seriamente ammalato. Da una parte c'era, dunque, l'evidente abbondanza delle opere, dall'altro la povertà dei responsabili seriamente educati a vivere la stessa estrema sobrietà di «un padre di famiglia povera e numerosa». L'altra questione spinosa era quella del potere sociale e politico: come poteva non avere occulte finalità politiche e responsabilità un'associazione che contava nel suo seno migliaia di professionisti impegnati a tutti i livelli della scala sociale, anche i più alti?

Per Escrivá il problema non si poneva neppure: ogni membro dell'Opera era personalmente e liberamente responsabile davanti a Dio del suo lavoro, delle sue scelte professionali ed economiche, delle sue opinioni politiche e della sua azione sociale: la vocazione laicale dei membri esigeva appunto che nessuno interferisse su questi livelli, in nome dell'Opera. Un'eventuale interferenza l'avrebbe definita clericalismo e, al riguardo, si sentiva proprio santamente «anticlericale».

Un giorno che dalla curia vaticana qualcuno gli fece pervenire le congratulazioni perché un membro dell'Opus Dei era stato nominato ministro del governo spagnolo, si mostrò indignato: «Che cosa importa a me che sia ministro o spazzino», sbottò. «Quello che mi importa è che si santifichi nel suo lavoro!».

Tutti nell'Opera sapevano il chiarissimo pensiero di Escrivá su certe tentazioni di un possibile uso cattivo, interessato, della propria appartenenza ecclesiale (tentazioni ricorrenti anche nei più nuovi movimenti).

Più volte - e usando espressioni durissime - egli spiegava ai suoi figli che sarebbe stato immorale utilizzare l'appartenenza all'Opus Dei per cercare o per offrire vantaggi o appoggi in campo sociale, politico ed economico; sarebbe stato immorale ottenere posti di lavoro o di responsabilità — o offrili ad altri — non in base alle capacità professionali, ma in base all'appartenenza all'Opus Dei; sarebbe stato immorale usare mezzi illeciti o comunque spregiudicati, giustificandoli col fine di assicurare all'Opus Dei un qualsiasi profitto; sarebbe stato immorale servirsi dell'Opus Dei per imporre ai membri scelte politiche o di partito...

E, secondo Escrivá, l'immoralità non era soltanto quella di contravvenire ai più comuni dettami della morale cattolica, ma anche quella di distruggere dall'interno i principi più delicati su cui l'intera Opera era fondata: il lavoro, la professione, le responsabilità della vita di ogni cristiano sono in se stessi materia della propria santità, sono in se stessi finalizzati alla Gloria di Dio, non hanno bisogno di essere utilizzati per altro fine, neanche per lo scopo più apparentemente alto o spirituale: non devono neppure essere finalizzati all'Opera, appunto!

Insisteva: «II rispetto della libertà dei suoi membri è condizione essenziale per la vita stessa dell'Opera. Se mancasse, nessuno aderirebbe all'Opera. Dirò di più: se si dovesse verificare una intromissione dell'Opus Dei in politica o in qualunque altro campo delle attività umane — il che non è mai successo, non succede e, con la grazia di Dio, non succederà mai —, il primo nemico dell'Opera sarei io».

Per questo, nonostante le calunnie di molti, il suo ideale continuava a splendere di originaria purezza, anche se sarebbe sciocco pretendere di attribuire, in ogni caso, la stessa purezza e la stessa lucidità a tutti i collaboratori e a tutte le loro scelte. La storia della Chiesa dimostra ripetutamente che certi fondatori hanno dovuto portare il peso delle intemperanze di seguaci animati dalle migliori intenzioni: anche questo appartiene al carisma della paternità...

Sul finire degli anni Cinquanta l'Opus Dei completò la sua espansione nelle principali città europee e iniziò la sua espansione in Asia e in Africa, poi in Australia.

Venne poi, negli anni Sessanta, il conforto del Concilio Ecumenico Vaticano II, che rilanciò a tutta la Chiesa le convinzioni di Escrivá sulla vocazione universale alla santità, sull'apostolato dei laici e sulla dignità del lavoro umano.

Seguirono a ridosso anche le sofferenze del postconcilio per i tanti tradimenti e le tante infedeltà di chi approfittava dell'aggiornamento conciliare più per distruggere che per edificare.

Me duele la Iglesia («Mi duole la Chiesa»), diceva allora Josemaría, intendendo che provava una vera sofferenza fisica a vedere dei cristiani contestatori che maltrattavano le parole e i doni di Cristo.

Fu allora che cominciò insistentemente a offrire a Dio la sua vita

per la Chiesa. Era diventato un'icona vivente di ciò che aveva predicato e costruito.

Lavorava instancabilmente e confessava di non riuscire più a distinguere la linea di confine tra quando smetteva di lavorare per cominciare a pregare e quando smetteva di pregare per cominciare a lavorare.

Quando lo vedevano leggere il giornale del mattino, i suoi collaboratori si accorgevano che pregava man mano che scorreva le notizie, «intercedendo» presso Dio per le persone e gli avvenimenti che gli passavano sotto gli occhi.

Negli anni Settanta erano già quasi sessantamila gli appartenenti all'Opus Dei in tutti i Paesi del mondo1 ed era forte il desiderio di molti di conoscere colui che ormai chiamavano «il Padre». Pur stanco e malato, Escrivá intraprese lunghi viaggi oltreoceano (li chiamava «scorribande apostoliche»), disponibile a incontri di «catechesi itinerante».

«Sono venuto a conoscervi e ad imparare», diceva alle folle che lo attendevano. Poi parlava - a volte a piccoli gruppi, a volte davanti a platee sterminate -, raccontando, dialogando, spiegando come se si rivolgesse personalmente a ciascuno. Coglieva al volo una domanda e rispondeva come se si stesse intrattenendo a quattrocchi con l'interlocutore.

Non temeva di essere affettuoso, familiare, allegro, né di commuoversi, né di lasciarsi andare a lunghe rievocazioni sulle vicende dell'Opera, nelle quali faceva scorgere sempre il segno della mano paterna di Dio e la propria immensa gratitudine. Ascoltandolo si percepiva che, davvero, nel campo di Dio, era grazia e ricompensa già l'aver potuto lavorare, e che perfino le sofferenze, le fatiche e gli insuccessi erano stati «privilegi».

Particolarmente commovente fu il primo viaggio-pellegrinaggio al santuario di Guadalupe, in Messico. Restò ore a guardare incantato l'immagine della Vergine che offre all'indio Juan Diego una rosa e disse con gli occhi lucidi, come un bambino sognatore: «Sarebbe tanto bello morire così, davanti alla Vergine che ti offre una rosa!».

Il 28 marzo 1975 celebrò le nozze d'oro sacerdotali. Disse: «A cinquant'anni [dall'Ordinazione] sono come un bambino che balbetta. Sto cominciando e ricominciando ogni giorno. E così fino alla fine dei giorni che mi rimangono: sempre ricominciando». Gli rimanevano esattamente tre mesi di vita.

Il 26 giugno di quello stesso anno, rientrando nella sua stanza da lavoro, si accasciò improvvisamente a terra, proprio davanti alla riproduzione della Madonna di Guadalupe. E morì come aveva desiderato, avendo negli occhi l'immagine della Vergine che offriva un fiore al suo umile devoto.

1 Ricordiamo qui che, nel 1982, L‘Opus Dei è stato eretto da Giovanni Paolo II a «Prelatura personale» di ambito internazionale, secondo una speciale configurazione giuridica definitiva ch'era già stata auspicata da san Josemaría.

L’ottavo libro dei Ritratti di Santi

«Nel medioevo vi erano dei monaci che trascorrevano l'esistenza a dipingere il Volto Santo, sempre il medesimo volto, che in realtà poi non era mai del tutto identico». Così scriveva, nei capitoletti introduttivi de L'avventura di un povero cristiano, Ignazio Silone il quale non nascondeva il desiderio di imitare gli antichi monaci. Da alcuni anni l'auspicio dello scrittore abruzzese è stato fatto proprio dal padre Antonio Sicari che, non a caso, è un carmelitano. Con passione egli racconta le storie dei santi, che diventano tutte delle pennellate con le quali egli contorna e abbellisce l'unico volto di Cristo. I santi raccontati in questo volume portano i nomi di Bernardo di Clairvaux, Bernardino da Siena, Caterina da Genova, Carlo Borromeo, Giacomo Cusmano, Paolina Visintainer, Armida Barelli, Maria Maravillas di Gesù, Josemaría Escrivá, Pino Puglisi.

I due fuochi della narrazione sono collocati nel Medioevo e nel ventesimo secolo, collegati da due figure diverse ma complementari come santa Caterina da Genova e san Carlo Borromeo. All'inizio ho sottolineato l'unità cristocentrica che soggiace alla narrazione. A conclusione è giusto ricordare la varietà e la peculiarità di ogni singola persona e situazione. Perché, come padre Sicari è riuscito a dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio, la santità non è meno accattivante del male e le vie dei santi sono infinite e belle come i sentieri di Dio.

Elio Guerriero

*Antonio Maria Sicari è nato nel 1943. Sacerdote dal 1967, appartiene all'Ordine dei Carmelitani Scalzi. E dottore in Teologia e ha conseguito la Licenza in Scienze Eibliche. Fa parte della redazione italiana della rivista «Communio»; attualmente vive nel convento carmelitano di Trento, dedicandosi allo studio e alla guida spirituale di un «Movimento Ecclesiale Carmelitano» da lui fondato, già diffuso in paecchie città italiane e in alcune nazioni.