San Lavoro

Il recupero nel corso del Ventesimo secolo del valore della laicità nella Chiesa è avvenuto attraverso l’affermazione dell’universale chiamata alla santità nella Chiesa, che ha avuto in Josemaría Escrivá uno dei massimi protagonisti.

A considerarlo come sostantivo, «laico» a volte indica il soggetto per il suo stato personale (per distinguerlo, soprattutto nella Chiesa, dagli appartenenti ad altri stati personali, come i chierici o i religiosi), o per la funzione svolta (in quanto, ad esempio, chiamato a rappresentare interessi politici, per distinguerlo dai soggetti che la svolgono per rappresentare interessi di categoria); altre volte, in una prospettiva ideologica, identifica il soggetto per il suo mondo ideale, alieno o lontano da influssi di natura fideistica; e anzi in quest’ultimo senso si parla di «laici» e di «laicità».

Un nesso fra questi diversi modi d’intendere i laici e la laicità può forse essere rintracciato nella storia della spiritualità occidentale di matrice cattolica e della riflessione teologica che l’ha accompagnata.

Solo per recenti consapevolezze, laico individua in essa il fedele, cioè l’uomo battezzato, che ha la specifica vocazione di «cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio» (1), e prospetta, pertanto, in positivo, come apprezzabile sotto il profilo religioso, la condizione secolare nella Chiesa, l’impegno del fedele nel mondo, e pertanto il mondo stesso; quel mondo, quel secolo, che, per molto tempo, sono stati ritenuti come devianti dal messaggio della salvezza, come ostanti a un impegno di santità. Non è difficile pensare che, benché frutto di un’insufficiente teologia delle cose temporali, questo vedere il laico impegnato in una realtà ritenuta fuorviante dal piano della salvezza, considerata lontano dalla santità e dalla Chiesa, ha potuto pian piano indurre un’idea di laicità come se essa fosse per sé contraria e avversa alla Chiesa, o, in ogni caso, estranea a questa; onde «laico» ha finito per essere ritenuto, una volta recise le profonde radici che legavano e legano il mondo a Dio, colui che, non solo per la sua condizione, ma per il suo stesso modo di pensare e di operare, si ritiene e vive del tutto affrancato da ogni credenza religiosa.

Un indizio di questa formazione, per così dire in negativo, dell’idea della laicità e dei laici si ha proprio nel fatto della controversa e peraltro non facile individuazione dei valori e dei contenuti che dovrebbero qualificare la laicità. Tutti visti in contrapposizione al concetto di confessionalità, di religiosità o di ecclesialità, tanto che l’idea di laicità sembra raffigurare uno di quei concetti antagonisti, che si formano con riferimento al loro contrario; un contrario che non serve soltanto a circoscriverli o a delimitarli, ma a consentirne la stessa pensabilità.

Il recupero nel corso del Ventesimo secolo del valore della laicità nella Chiesa è avvenuto attraverso l’affermazione dell’universale chiamata alla santità nella Chiesa, che ha avuto in Josemaría Escrivá uno dei massimi protagonisti.

Giovane sacerdote, il 2 ottobre del 1928, a conclusione di un’inquietudine interiore durata diversi anni, egli intravide, per ispirazione divina, come a lui affidato il compito di diffondere, in forma istituzionalizzata, il messaggio che tutti gli uomini, quale che sia la loro condizione, quale il loro stato giuridico, sono chiamati alla perfezione della vita umana e soprannaturale.

Il messaggio era innovativo, ma non assolutamente nuovo. Non nuovo, perché rispondeva pienamente alle esigenze manifestatesi nella Chiesa fin dai primordi, ritrovandosi nella predicazione apostolica, non mai smentita nei duemila anni di vita del cristianesimo. Eppure innovativo, poiché le vicende della Chiesa, le difficoltà con le quali questa nel corso della sua storia si era dovuta cimentare e che aveva dovuto superare, avevano portato, senza negare esplicitamente quel messaggio, a centrare l’attenzione su forme specifiche di vita cristiana, ove il raggiungimento della perfezione era ricondotto alla partecipazione della potestà gerarchica nella Chiesa, ovvero alla condivisione di una vita ascetica, il più delle volte assoggettata a una specifica regola, che avrebbe agevolata, con l’allontanamento dal mondo, dai suoi impegni, dalle sue tentazioni, la testimonianza dei consigli evangelici, a elevazione della propria vita spirituale e dell’altrui.

Si era infatti affermata nel tempo l’idea, già largamente diffusa nel Medioevo, bene espressa e rappresentata dal grande canonista Graziano nel Dodicesimo secolo, e da allora sempre più comune nella Chiesa, che vi fossero due generi di cristiani: i chierici, impegnati nel servizio divino, dediti alla contemplazione e alla preghiera, eccellenti nelle virtù, aventi in cielo il loro regno; e i laici, ai quali è lecito possedere beni temporali, è concesso «prendere moglie, coltivare la terra, giudicare, agire in giudizio, offrire oblazioni sugli altari, pagare le decime», che, però, non riuscendo a svincolarsi dagli impegni temporali, né riuscendo conseguentemente a dedicarsi alla contemplazione e all’orazione, non possono ritenersi eletti da Dio al regno delle virtù, alla pienezza della santità. Molte ragioni, per la verità, giustificavano queste persuasioni.

La Chiesa aveva dovuto difendere la purezza della sua dottrina e delle forme di vita da questa ispirata in epoche assai difficili, e aveva dovuto salvaguardare la sacertà del suo sacerdozio in momenti in cui questo sembrava essere venuto a patti col mondo divenendo appannaggio di interessi privati; costanti e ripetute nei secoli disposizioni disciplinari e normative, la gran parte delle quali sarebbero state poi accolte e consacrate nel Corpus iuris canonici, rimasto in vigore nella Chiesa per oltre sei secoli, ce ne forniscono ampia testimonianza.

Naturale pertanto che la Chiesa, per far rifulgere al meglio il suo messaggio di santità, tenesse in particolare onore e incoraggiasse quanti, da singoli e meglio se organizzati in comunità rette da regole di santi fondatori, per distacco anche esteriore dalle realtà mondane, per macerazione di mortificazioni, per intensità di preghiera, per disprezzo di onori e di ricchezza, mostravano nella loro vita e nella loro carne la grandezza e la bellezza delle virtù cristiane, esempio e punto di riferimento per tutti i fedeli e per tutti gli uomini.

Si era così a poco a poco diffusa l’idea che il cammino di santità restasse separato dalla vita ordinaria; un’opinione che non aveva mancato di produrre i suoi effetti nella configurazione esteriore della vita cristiana, e anche, inevitabilmente, sull’organizzazione istituzionale della Chiesa. E i laici? Benché battezzati, finirono per essere considerati, per un periodo di tempo non breve, quali potenziali portatori di interessi contrari a quelli della Chiesa istituzionale, in quanto ascritti a un mondo che questa doveva redimere, ma dal quale sarebbe stato necessario guardarsi per non farsi contaminare o essere sopraffatti; o, se si vuole, i laici oggetto dell’attenzione pastorale della Chiesa, identificata con la Chiesa docente e quindi con i chierici.

Questo il quadro emergente anche dal diritto della Chiesa nella prima metà del secolo passato. Ma tutti intendono come il problema non fosse solamente né principalmente giuridico normativo. Il diritto alla fine esprimeva una realtà ecclesiale e spirituale di ben più ampia portata, e in un certo senso era esponenziale della stessa. E tutti intendono altresì come il messaggio della universale chiamata alla santità, riportato a vita nuova nella Chiesa, avesse bisogno non tanto di una nuova normativa ma di una nuova complessiva vitalità della Chiesa nelle sue molteplici trame istituzionali e comunitarie.

Una vitalità che avrebbe dovuto svilupparsi secondo un programma di delicatissima attuazione, giacché avrebbe potuto trascendere, ove non fosse stata trovata la giusta via propositiva con l’equilibrio derivante dall’adesione appassionata al messaggio cristiano e all’autorità del magistero della Chiesa, non in un arricchimento della stessa, ma nel depauperamento di profili che pure le sono essenziali.

L’ispirazione divina per un rinnovato impegno nella Chiesa a diffondere il messaggio dell’universale chiamata alla santità, messaggio che Josemaría Escrivá intravide con meridiana chiarezza nelle sue esigenze pastorali e nei suoi sviluppi istituzionali, si sarebbe dimostrata di trascendentale importanza per la vita della Chiesa nella seconda metà del secolo scorso e tale promette di essere per il futuro.

Quel messaggio riguardava non una parte della Chiesa, ma tutti i fedeli in essa, indipendentemente dal loro stato di vita e dalla loro condizione giuridica specifica: proprio per questo la chiamata alla santità era ed è «universale». Il che avrebbe richiesto innanzitutto di costruire uno statuto comune a tutti i fedeli; statuto comune che ancora nel Codice di diritto canonico del 1917 non era prefigurato.

Ma poi quel messaggio avrebbe svolto una funzione decisiva per togliere i laici dallo stato di minorità, nel quale da secoli sembravano confinati nella Chiesa. Una qualche evoluzione in materia, rispetto al modo di sentire diffuso, si era per la verità manifestata sin dagli ultimi decenni dell’Ottocento.

I laici che avessero una qualche maggiore consapevolezza della loro appartenenza alla Chiesa, erano stati sollecitati a rappresentarne e a difenderne gli interessi nell’ambito secolare, soprattutto politico e sociale; quegli interessi che la Chiesa istituzione, per l’ineluttabile progressivo declino della sua forza politica, non era più in grado di assicurare direttamente come nel passato.

Nelle forme più moderne ed evolute i laici erano invitati a partecipare ai vari movimenti di Azione cattolica, intesa come strumento di «partecipazione del laicato all’apostolato della gerarchia» (2), di cui dovevano essere «come il prolungamento delle sue braccia» (3). Non si può negare il rilievo dell’attività svolta dai vari movimenti di Azione cattolica in momenti spesso pieni di contrarietà per la vita della Chiesa, né si può misconoscere quanto questa a essi deve per una crescita della vita spirituale della comunità dei credenti.

Ma quale fosse ancora l’idea della funzione di questa categoria di fedeli nella Chiesa e quale dunque la visione riduttiva della chiamata alla santità lo dimostra l’insistenza sulla sottomissione alla gerarchia dell’Azione cattolica, il concepirla, da parte di taluno, come «un modo di rapportare i laici alla gerarchia», l’intendere il tesseramento nelle associazioni di Azione cattolica come svolgente «una funzione analoga alla professione religiosa e alla tonsura clericale» (4).

Che era come dire che solo nel contesto di un rapporto essenziale con i chierici, in un orizzonte concettuale e spirituale che identifica la Chiesa con la sua gerarchia, i laici avrebbero potuto compiere con pienezza la loro vocazione cristiana.

Ben diverso il messaggio irradiato nella Chiesa attraverso Josemaría Escrivá. «Siamo venuti a dire (…) che la santità non è cosa per privilegiati: che il Signore chiama tutti, che da tutti si attende Amore: da tutti, dovunque si trovino; da tutti, di ogni condizione, professione o mestiere. Perché la vita normale, ordinaria, poco appariscente, può essere mezzo di santità: non è necessario abbandonare il proprio stato nel mondo per cercare Dio, se il Signore non dà a un’anima la vocazione religiosa, poiché tutte le strade della terra possono essere occasione di un incontro con Cristo» (5).

Questa «verità», che «tutti devono santificarsi e che alla maggior parte dei cristiani compete il santificarsi nel mondo, nel lavoro ordinario», onde s’avrà «sempre questo fenomeno: che ci sono persone di tutte le professioni e mestieri che cercano la santità nel loro stato, nella loro professione o mestiere, essendo anime contemplative nel bel mezzo della strada» (6), avrebbe invaso progressivamente la vita della Chiesa, sarebbe penetrata per mille non predefinibili canali nella consapevolezza e nella coscienza dei cristiani, avrebbe condotto a un ripensamento profondo della teologia delle realtà temporali, che per sé non sono cattive, non costituiscono un pericolo per l’anima, non sono da rifuggire.

Come alla fine avrebbe detto e consacrato il Concilio Vaticano II, in Cristo, capo del Corpo mistico che è la Chiesa, e in vista di Lui «tutte le cose sono state create: Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in Lui» (7); tutte le cose, pertanto, vanno a Lui riportate. Ma se tutta la realtà viene da Cristo, se tutta porta a Lui, tutta la realtà è santificabile (8); e tutta la realtà, dunque, rappresenta il campo dell’impegno ordinario del cristiano.

In particolare il Concilio avrebbe disposto che «ai laici tocca assumere l’instaurazione dell’ordine temporale come compito loro proprio e, in esso, guidati dalla luce del Vangelo e dal pensiero della Chiesa e mossi dalla carità cristiana, operare direttamente e in modo concreto; come cittadini cooperare con gli altri cittadini secondo la specifica competenza e sotto la propria responsabilità; cercare dappertutto e in ogni caso la giustizia del regno di Dio» (9).

Questo l’insegnamento conciliare, singolarmente consono con il costante insegnamento di Josemaría Escrivá, che chiamava tutti senza eccezione a essere aristocratici dello spirito dovunque essi vivessero e svolgessero il loro lavoro o la loro funzione, essendo questo il volere stesso di Cristo.

Proprio la ritrovata consapevolezza del valore divino di tutte le realtà temporali, della possibilità e della necessità di santificarle e di santificarsi in esse (vale a dire, la ritrovata consapevolezza della possibilità per la Chiesa di adempiere la sua missione religiosa nelle realtà temporali), rappresenta il fatto nuovo di incommensurabile portata politico-giuridica rispetto a una cristianità per più di un millennio impegnata anche istituzionalmente a difendersi dalla invasione del mondo (e dello Stato che istituzionalmente lo rappresenta), a contrapporsi in qualche modo a esso. I cristiani tutti, non solo la Chiesa istituzionale, sono sale del mondo; del mondo in cui essi vivono e operano; del mondo che viene da Dio e sa di divino, e che dunque deve, proprio per tale definitiva ragione, essere amato «appassionatamente», come si espresse in una memorabile omelia pronunziata da Josemaría Escrivá l’8 ottobre del 1967 nel campus dell’Università di Navarra (10).

Quell’insegnamento, col rigettare ogni clericalismo, col rivendicare la libertà dei cristiani, anche all’interno della Chiesa rispetto all’autorità ecclesiastica, nelle loro opzioni temporali, tagliava l’erba sotto i piedi al laicismo (che è una deformazione della vera laicità), e apriva al contempo scenari del tutto nuovi nei rapporti non solo fra la Chiesa e il mondo, ma anche fra il mondo e la Chiesa, di cui già si incominciano a intravedere i primi significativi segni.

Josemaría Escrivá fu un grande formatore di coscienze. Non si comprenderebbe in tutta la sua latitudine l’apporto dato da Escrivá alla vita della Chiesa ove si trascurasse tale profilo e si pensasse a lui come a un dottrinario che esercitò il suo sapere nei campi sopra segnalati.

A coloro che ebbero con lui rapporti personali e amichevoli o anche semplicemente lo avvicinarono (e il loro numero è altissimo), e continuano ad avvicinarlo, attraverso la sua predicazione, i suoi scritti, le testimonianze filmate dei suoi incontri con moltitudini di persone, egli trasmise e trasmette non soltanto un insegnamento, un programma teorico d’azione, ma come è stato ben detto, «una vita» (11).

Per tale via egli contribuì alla formazione di una cultura, che significa appunto in primo luogo visione di vita, in una cerchia non insignificante della società. Almeno un aspetto della sua opera formativa va qui ricordato fra quelli che più denotarono la sua ricca personalità di educatore e più segnarono esigenze di vita cristiana: l’impegno tenace e attentissimo per la formazione in coloro che ne ricevettero gli insegnamenti di una mentalità laicale; una mentalità che impone per un verso un pieno coinvolgimento spirituale e psicologico con le realtà del mondo, indispensabile per non essere e non sentirsi, in quanto credenti, da questo separati, e al contempo rifugge da ogni partigianeria ideologica, manifestazione di spirito angusto, proprio di chi tende a chiudersi nelle proprie certezze e nella cerchia di persone che le condividono, anziché restare aperto e disponibile alle infinite suggestioni di cui è ricca la vita degli uomini; una mentalità che richiede, come indispensabile complemento, fermo rispetto e grande amore per la libertà, nelle sue multiformi manifestazioni e nelle sue ricche implicazioni, e per la giustizia, una virtù propriamente «laicale» che qualifica e caratterizza eticamente i rapporti fra gli uomini.

Amore per la libertà, innanzitutto, come premessa necessaria per il radicamento della responsabilità personale, a sua volta elemento essenziale per il sorgere e il fiorire della vita cristiana, che richiede una forte (la più forte) assunzione di responsabilità nei confronti di Dio e nei confronti degli uomini. Libertà che impone rispetto sincero delle opinioni altrui: «Dovete sentirvi liberi in tutto ciò che è opinabile. Da questa libertà nascerà un santo senso di responsabilità personale, che rendendovi sereni, forti e amici della verità vi preserverà allo stesso tempo da tutti gli errori: perché rispetterete sinceramente le legittime opinioni degli altri» (12).

Libertà che comporta per i credenti ampi spazi per il legittimo pluralismo, un abito mentale contrario a ogni imposizione di opzioni precostituite, legittimate in nome di un cattolicesimo ufficiale, che «violenterebbe la natura delle cose» e sarebbe lesivo di una vera e propria mentalità laicale, mentre propizierebbe l’insorgere di un infausto «sorpassato e deplorevole» clericalismo (13). Una libertà che nella Chiesa va assicurata a tutti i fedeli e, quindi, anche ai laici, che non debbono soffrire una sorte di perdita dei diritti civili nei confronti degli altri laici, tenendo conto che «l’esistenza di un autentico pluralismo di criteri e di opinioni, anche fra cattolici, nell’ambito di ciò che il Signore ha lasciato alla libera discussione degli uomini, non solo non è di ostacolo all’ordinamento gerarchico e alla necessaria unità del Popolo di Dio, ma anzi afferma questi valori e li protegge da eventuali inquinamenti» (14).

Una libertà che «acquista il suo autentico significato quando viene esercitata al servizio della verità che redime, quando è spesa alla ricerca dell’Amore infinito di Dio, che ci scioglie da ogni schiavitù» (15); una libertà che non può essere «senza scopo, senza norma oggettiva, senza legge, senza responsabilità» (16), poiché in tal caso sarebbe sterile o produrrebbe frutti irrisori, anche dal punto di vista umano, decadendo in libertinaggio (17).

Ma poi amore per la giustizia. Una giustizia - diceva egli (18) - «di cui non mi stancherei mai di parlare». Una giustizia strettamente legata alla verità; che cresce con il crescere di questa; e dunque un amore per la giustizia che si concreta in un amore appassionato per la verità.

Una giustizia che impone di riconoscere e di dare a ciascuno il suo, di rispettare i diritti di tutti, ovunque si manifestino (nel mondo del lavoro, innanzitutto, espressione della dignità dell’uomo), e i diritti di Dio. Una giustizia che per il credente non può restare separata dalla carità, espressione stessa dell’essenza divina (Deus caritas est); una carità che, a sua volta, si manifesta nel modo migliore esercitando una giustizia «generosamente eccedente» (19).

Questi insegnamenti esprimono valori che connotano e impregnano un certo modo d’intendere la vita nella Chiesa: le attribuiscono una radicazione divino naturale; inducono al rispetto delle norme e delle direttive pastorali non in forma estrinseca e ottusa, sapendo che esse sono soltanto «ottimi fili conduttori» (20), che guidano al giusto, ma non si identificano necessariamente con questo, soprattutto nelle interpretazioni e nelle applicazioni che ne vengono date; sanciscono la preminenza dei diritti della persona rispetto a un’autorità, che, ove non li riconoscesse, decadrebbe in mero potere; sollecitano la formazione delle coscienze, ergendole come muro invalicabile nei confronti di ogni dispotismo, comunque questo si manifesti; costituiscono l’orizzonte spirituale, culturale e umano, comune a quanti, nella molteplicità delle loro funzioni e nella pluralità e diversità di opzioni pragmatiche o scientifiche, a essi hanno spirato e ispirano la vita e il modo di sentire il diritto e la giustizia.

Gli insegnamenti di Josemaría Escrivá risultano utili non soltanto per i credenti, ma anche per i «laici» lontani dalle fede; essi infatti suonano per tutti come un invito a evitare il rischio del «clericalismo», che i «laici» corrono non meno dei credenti; un clericalismo che si concreta per gli uni nel rivendicare in esclusiva il possesso di Dio trascendente il mondo, e per gli altri il possesso di un dio immanente nel mondo (comunque esso si chiami); un clericalismo che alla fine, in entrambi i casi, induce a pensare d’essere nelle faccende temporali gli unici portatori del vero.

Riportando in cielo Dio, liberandolo dalle indebite appropriazioni, sottraendolo alle ingiuste utilizzazioni, Josemaría Escrivá ha avuto il non piccolo merito d’averlo reso disponibile per tutti coloro che sono aperti alla verità problematica e spesse volte misteriosa del mondo, che può e deve essere amato «appassionatamente», perché in esso sta il futuro, che è la vera e la più alta ricchezza dell’uomo; un mondo nel quale il «laico non credente» potrà incontrarsi col «laico credente», per realizzare entrambi appieno la loro umanità, nel rispetto dei diversi cieli che ispirano e nei quali restano ascritte le loro profonde convinzioni e le ragioni ultime delle loro azioni.

La modernità del concetto di laicità proposto da Escrivá

Settimanale Liberal, Milano, 1 giugno 2002

Note

1) Concilio Vaticano II, const. dogm. Lumen Gentium, 31;

2) Pio XI, litt. Enc. Non abbiamo bisogno (29 giugno1931) in A.A.S. 23 (1931), p. 287 e 294

3) Pio XII, Allocutio iis qui Romae adfuerunt Conventui universali de Cattolico laicorum apostolatu (14 oct. 1951), in A. A. S. 43 (1951), p. 789

4) I M.-J. Congar, Jalons pour une théologie du laicat, III ed., Paris 1964, rispettivamente p. 522 nota 80 e p. 521 ;

5) J. Escrivá, Lettera, 24.III.1930, n. 2, in A. Vázquez de Prada, Il Fondatore dell’Opus Dei. Vita di Josemaría Escrivá, vol. I, Como, 1999, p.315;

6) J. Escrivá, Lettera , 9.I.1932, n. 92, ibidem, p. 319;

7) Concilio Vaticano II, const. dogm. Lumen Gentium, 7

8) Concilio Vaticano II, decr. Apostolicam Actuositatem, 7; Const. Past. Gaudium et Spes, 36;

9) Decr. Apostolicam Actuositatem, 7. Tutte le cose, avendo una valenza religiosa, sono dunque suscettive di ricondurre a Dio. «Questa destinazione –riconosceva il Concilio (ivi) –non solo non priva l’ordine temporale della sua autonomia, dei suoi propri fini, delle sue proprie leggi, dei suoi propri mezzi, della sua importanza per il bene dell’uomo, ma piuttosto lo perfeziona nella sua consistenza e nella propria eccellenza e nello stesso tempo lo adegua alla volontà integrale dell’uomo sulla terra»;

10) Si può leggere in Colloqui con Monsignor Escrivá, V ed. Milano, 1987, n. 113-123;

11) C. Fabro, La tempra di un padre della Chiesa, in C. Fabro – S. Garofalo – M. A. Raschini, Santi nel mondo. Studi sugli scritti del beato Josemaría Escrivá, Milano 1992, p. 23;

12) J. Escrivá, Lettera 9.I.1951, n. 23, cit. da Á. Rodríguez Luño, La formazione della coscienza in materia sociale e politica secondo gli insegnamenti del beato Josemaría, in Romana. Studi sull’Opus Dei e sul suo Fondatore, Milano, 1998, p. 405;

13) Colloqui con Monsignor Escrivá, cit. n. 12 e 117;

14) Ibidem n. 12,

15) J. Escrivá, La libertà, dono di Dio, in Amici di Dio, V ed., Milano, 1996, n. 27;

16) Ibidem, n. 32;

17) Ibidem, n. 29 e 32;

18) J. Escrivá, Le virtù umane, in Amici di Dio, n. 83;

19) Colloqui, cit., n. 83;

20) I. Kant, Metaphysik der Sitten (1797), trad. It. Di G. Vidari, La metafisica dei costumi, Bari, 1983, p. 34