"Se hai bisogno di me, chiamami"

Ultimato il passaggio dei Pirenei, dopo un breve periodo trascorso a Pamplona, si stabilì a Burgos. Da lì, in mezzo a numerose ristrettezze, in un paese devastato, sviluppò un intenso apostolato —dal 8 gennaio 1938 fino al 27 marzo 1939— data nella quale si trasferì a Madrid.

Il 9 gennaio 1938, poco dopo essere arrivato a Burgos, don Josemaría compì 36 anni. Pensando a tutti i suoi figli, scrisse loro una lunga lettera che iniziava così:

“Circolare del 9 gennaio 1938

Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo e di Santa Maria.

+ Gesù benedica i miei figli e me li protegga.

Il Signore ha protetto anche me dalla morte, che più di una volta sembrava sicura; e mi ha tratto fuori dalla terra d'Egitto, dalla tirannia rossa — nonostante i miei peccati e certamente per le vostre preghiere — perché continui a essere Capo e Padre dei suoi eletti, in questa Opera di Dio.

È mio proposito venirvi a trovare, uno per uno. Cercherò di farlo quanto prima. Finché non arriverà il momento, tanto desiderato, con questa Lettera Circolare vi offro luce e incoraggiamento e mezzi, non solo per perseverare nel nostro spirito, ma anche per santificarvi con l'esercizio del discreto, efficace e virile apostolato che svolgiamo, alla maniera dei primi cristiani: benedetto lavoro di selezione e di confidenza!

Come frutto maturo e saporito della vostra vita interiore, con naturalezza, per la gloria del nostro Dio — Deo omnis gloria! —, rinnovate la vostra silenziosa e operativa missione.

Non esiste nulla di impossibile: omnia possum...

Dimenticate i nostri dieci anni di consolante esperienza?... Forza allora! Dio e audacia!”.

In attesa di parlare personalmente con ognuno, egli ricordava loro i fondamenti pratici della vita interiore, delle norme di pietà e dell'apostolato. E aggiunse i consigli utili a vincere gli ostacoli che potevano sorgere in tempo di guerra: scrivergli, studiare una lingua, fare un lavoro professionale qualsiasi, passare per Burgos quando avessero avuto una licenza... È scontato che si metteva a loro completa disposizione, come fa un Padre:

“Se hai bisogno di me, chiamami. Hai il diritto e il dovere di chiamarmi. E io, il dovere di accorrere, col mezzo di locomozione più rapido”.

La lettera terminava con un avviso:

“E ora, una questione importante. Tempo addietro, si sentiva la necessità di inserire una petizione “pro Patre” nell’orazione ufficiale dell'Opera. Dal 14 febbraio prossimo — giorno di ringraziamento, come il 2 ottobre — s'incomincerà a recitare nelle nostre Preci, dopo Oremus pro benefactoribus nostris, l’Oremus pro Patre, che sarà così:

“Misericordia Domini ab aeterno et usque in aeternum super eum: custodit enim Dominus omnes diligentes se”. “La Misericordia del Signore su di lui, sempre: perché il Signore protegge coloro che lo amano”.

Sapete bene di essere, come dice S. Paolo, la mia gioia e la mia corona: vi penso sempre... siatemi fedeli!

Vi benedice vostro Padre

Mariano

Da San Michele di Burgos, 9 gennaio 1938”.

Josemaría Escrivá con alcuni dei primi membri dell'Opera. Burgos. 1938

Il Fondatore aveva bisogno della preghiera e della mortificazione dei suoi figli. Quando scriveva: “Vi penso sempre... siatemi fedeli!” non scriveva una frase qualsiasi. Durante gli esercizi spirituali a Pamplona le preghiere a favore dei suoi fluivano paternamente dal suo cuore. Il solo pensiero che si fossero perse alcune lettere di quelli del Consolato dell’Honduras — cioè di Álvaro del Portillo e di José María González Barredo — gli toglieva la tranquillità:

“Dio mio, Dio mio: dammi la pace! Molte volte al giorno, molte, mi ricordo di ciascuno. E anche della povera nonna e dei miei fratelli: ma non prego mai per mia madre senza pregare per i genitori e i fratelli di tutti” .

Benché avesse già scritto due volte al Vicario Generale, in quanto Rettore di Santa Isabel giudicò prudente confermare a mons. Leopoldo Eijo y Garay la sottomissione alla sua autorità e la propria speciale dedizione all'Opera:

“Burgos, 10 gennaio 1938

Mio venerato Signor Vescovo, sono arrivato, evaso da Madrid, e mi sono affrettato a scrivere a don Morán — che è sempre stato per me come un padre — per mettermi agli ordini di S.E. Rev.ma.

Oggi, dopo aver fatto gli esercizi nel Palazzo Episcopale di Pamplona, dove mi ha accolto per alcuni giorni l'amicizia di quel santo Prelato, appena avuto l'indirizzo del mio Vescovo — è stato il Vescovo di Vitoria a darmelo — invio queste righe a S.E. allo scopo di reiterare la mia incondizionata disponibilità e di comunicarle che, seguendo la mia personale vocazione, proseguo l'apostolato con giovani universitari e docenti.

Se S.E. Rev.ma lo desidera, con molto piacere mi metterò in viaggio per raccontare al mio Vescovo quello che so del magnifico eroismo del suo clero e del coraggio cristiano dei nostri giovani, che supera quello dei primi cristiani di Roma.

(...) Il suo obbedientissimo figlio bacia l’anello pastorale e chiede la benedizione di S.E.

Josemaría Escrivá, Rettore di Santa Isabel.

Abito a Burgos: via Santa Chiara, 51”.

Sempre il 10 gennaio si recò al palazzo arcivescovile di Burgos, per chiedere al Vescovo, mons. Manuel de Castro y Alonso, le facoltà per l'esercizio del suo ministero. Per strada incontrò un sacerdote che aveva conosciuto a Madrid, il quale lo accompagnò gentilmente fino al palazzo, dove gli fu presentato un parroco, venuto in visita, che conosceva da vecchia data l'ampia parentela ecclesiastica degli Albás. Parlando con il parroco, don Josemaría si dimenticò degli avvertimenti, senza dubbio un po' esagerati, con cui tutti mettevano in guardia dagli umori del Vescovo. Non aveva paura. Per fortuna egli era ben raccomandato da mons. Marcelino Olaechea. Per di più anche mons. Javier Lauzurica si era preso il disturbo di avvisare per telefono il Vescovo di Burgos per annunciare la sua visita. Tuttavia egli percepì in quell'ambiente qualcosa di molto strano. Notò una sensazione di abbandono e di freddezza. I corridoi erano deserti e nessuno faceva anticamera.

A questo punto il Vescovo si affacciò nel corridoio, mentre il Padre udì qualcuno annunciare:

- “C'è qui Escrivá”.

Cattedrale di Burgos

Don Josemaría passò nel salone delle visite e consegnò all'Arcivescovo la lettera del Vescovo di Pamplona:

- “Aspetti, prendo gli occhiali”.

Ritornò poco dopo con un’espressione arcigna. S'immerse nella lettura della lettera e, benché mons. Olaechea avesse costellato il testo di frasi disinvolte, il suo collega di Burgos non batté ciglio. Terminata la lettura, guardò don Josemaría da sopra le lenti e gli si rivolse con secca laconicità:

- “Quest'Opera non la conosco”.

Il sacerdote cercò allora per un paio di minuti di spiegare quello che già diceva la lettera circa i fini e le attività dell'Opera.

- “Qui non ci sono universitari; di clero ne ho fin troppo; non le concedo le facoltà”, fu la risposta, secca e pesante.

- “Se il Signor Arcivescovo mi permette...”, cominciò don Josemaría.

- “Sì, permetto”, disse in tono autoritario.

- “È vero che qui non ci sono universitari, perché tutti i giovani sono al fronte; ma, poiché Burgos è il centro di tutte le attività, ci sono sempre giovani universitari che passano”.

- “Sono molto ben seguiti, non ho bisogno di lei”, furono le sue parole di commiato.

Così ebbe termine la visita, che don Josemaría descrisse in tono leggero, con un titolo da opera teatrale: “Colloquio di un chierico peccatore con l’Arcivescovo di Burgos”. Il sacerdote uscì molto sereno dalla rappresentazione, ma si vide costretto a sottoporre di nuovo il caso ai Vescovi di Pamplona e di Vitoria, per cercare di ottenere le desiderate facoltà per altra via, perché quella dell'Arcivescovo sembrava definitivamente chiusa.

Prima della fine del mese, il Vescovo di Vitoria, di passaggio a Burgos, sistemò le cose. Quando don Josemaría andò di nuovo a far visita all'Arcivescovo, fu tutto più facile. Questa volta il prelato fu tutto miele: “Conviene che lei stia a Burgos: non si muova da Burgos. Vada pure negli uffici: le daranno facoltà illimitate”.

Il passo successivo fu quello di trovare un buon confessore. L'11 gennaio gli fu presentato un sacerdote paralitico, don Saturnino Martínez. Don Josemaría gli chiese se voleva essere il suo confessore. “Mi capisce perfettamente”, scrisse quel giorno in una caterina.

E non è difficile capire perché don Saturnino gli era andato tanto a genio:

“Nella conversazione mi fece gioire per le lodi che dedicò agli Angeli; e perché anche lui crede che noi sacerdoti, a motivo del nostro ministero, oltre all'Angelo Custode abbiamo un Arcangelo. Sono uscito dalla sua casa con profonda gioia, raccomandandomi al mio piccolo Orologiaio e all'Arcangelo. E pensai con sicurezza che, se anche non fosse vero che ho con me un Arcangelo, Gesù finirà col mandarmelo, affinché la mia preghiera all'Arcangelo non sia sterile. Fattomi bambino, per strada mi chiedevo come l'avrei chiamato. Sembra un po' ridicolo, ma quando si è innamorati di Cristo non c'è ridicolo che tenga: il mio Arcangelo si chiama Amatore”.

Non accettando stipendi di Messe, don Josemaría aveva libertà di intenzioni e le applicava alle necessità dell'Opera e dei suoi. Eccezionalmente, il 17 gennaio la celebrò per la propria persona e le proprie intenzioni:

“Celebro il Santo Sacrificio per me, sacerdote peccatore. Lo noto: quanti atti di Amore e di Fede! E nel ringraziamento, peraltro breve e distratto, ho visto che dalla mia Fede e dal mio Amore, dalla mia penitenza, dalla mia orazione e dalla mia attività, dipendono in buona parte la perseveranza dei miei e, in questo momento, persino la loro vita terrena. Benedetta Croce dell'Opera, che portiamo il mio Signore Gesù — Lui! — e io!”.

Per le sue penitenze egli aveva bisogno di un minimo di indipendenza e di libertà di movimenti. “Desidero avere una camera per me solo — si legge negli Appunti —.Altrimenti non mi è possibile fare la vita che Dio mi chiede”. Vita che consisteva nel dormire per terra e solamente cinque ore per notte (“meno la notte tra il giovedì e il venerdì”, che voleva trascorrere in bianco); nel saltare alcuni pasti; nell'uso delle discipline (esercizio del tutto incompatibile con la tranquillità di una casa con ospiti, poiché sappiamo bene il modo in cui le usava don Josemaría).

Fra una cosa e l'altra, don Josemaría andava seminando di mortificazioni il proprio cammino. La sera prima, 16 gennaio, aveva fatto il “fermo proposito — si legge negli Appuntidi non visitare per curiosità - mai! - alcun edificio religioso. Povera cattedrale di Burgos!” . Certi avverbi, conoscendo la ferrea volontà del Fondatore, sono terribili: si ricordi il “non guardare mai!” del 1932.

A Burgos avevano bisogno di un appartamento in cui ricevere visite e accogliere coloro che erano di passaggio; meglio ancora se fosse stato possibile sistemarvi un oratorio. Ma per quanto cercassero non riuscirono a trovare un appartamento libero. Di conseguenza, l'eclatante “San Miguel de Burgos”, nome riportato sull’intestazione della Lettera Circolare, non sarebbe mai stato altro che la minuscola stanza di una pensione o di un albergo .

Don Josemaría aveva ben tracciati in mente i piani a breve, medio e lungo termine, benché per lui tutto finisse per essere “lavoro immediato”. La prima cosa era tentare di far destinare a Burgos Juan Jiménez Vargas, Pedro e Paco, i quali, insieme ad Albareda, avrebbero costituito, per così dire, l'organico dell'ufficio centrale che, da una sede fissa, si sarebbe occupato di coordinare il lavoro apostolico, di prendersi cura degli amici che passavano per Burgos e di mantenere i rapporti epistolari. Doveva anche riuscire con urgenza a parlare quanto prima con ciascuno dei membri dell'Opera. Basta scorrere le caterine per accorgersi delle sue sofferenze:

“Dio mio, Dio mio! Tutti ugualmente amati, per Te, con Te e in Te: tutti dispersi. Mi hai colpito dove più poteva farmi male: nei figli”.

San Josemaría e Álvaro del Portillo

Era un dolore che comprendeva molte cose: l'impossibilità di condividere da vicino difficoltà e sofferenze altrui, la mancanza di un focolare di famiglia, l'isolamento e la solitudine: “Quanto mi pesa la solitudine! I miei figli, Signore!”; e poi il pensiero inquietante che, in quelle condizioni, era meno sicuro che i suoi figli perseverassero fedelmente nel cammino.

Ora che risiedeva a Burgos, con un abisso invalicabile tra una zona e l'altra, il suo affetto ingigantiva la desolazione. Se Isidoro scriveva: "La nonna e gli zii proseguono meravigliosamente; stanno passando molto bene l'inverno", il Padre annotava: “Non è possibile, otto mesi fa si mancava di tutto”.

Comunque, nonostante immaginasse scarsità e avversità, non poteva rendersi conto fino in fondo della cruda verità che effettivamente nelle lettere gli veniva nascosta. L'inverno del 1938 a Madrid fu terribile: con un freddo spaventoso e mancanza di cibo e di combustibili: "Ho una tale collezione di geloni — scrisse Isidoro — che faccio fatica a impugnare una matita".

Il Padre era presente a se stesso e teneva conto con matematica precisione della corrispondenza. Il 24 febbraio raccontava a Juan Jiménez Vargas: “Da Madrid abbiamo ricevuto sette lettere e ne abbiamo inviato loro diciotto”. Ricevere notizie, pur essendogli di grande consolazione, poteva anche diventare un supplizio, per l’attesa impaziente della risposta, sempre con il sospetto di disguidi o con il timore della censura. Su questo punto, chiedere al Padre che prendesse le cose con filosofia era chiedere una cosa impossibile. Non faceva parte della sua natura. Lo disse chiaramente a Juan in una lettera del 27 marzo:

“Da Madrid — poveri figli! — spero che arrivi qualcosa uno di questi giorni. Ho inviato loro una lettera il 18 via San Juan de Luz, e un'altra il 26 tramite il marchese de Embid. Mi fanno molta pena. Tu mi conosci meglio di chiunque altro e sai bene che sono... eccessivo. Il Signore non ne terrà conto" .

Naturalmente, l’accusa a se stesso di essere “eccessivo” nei sentimenti paterni va presa con cautela.

________________________________________________________________

Il Fondatore dell’Opus Dei, II: Dio e Audacia, Andrés Vázquez de Prada. Ed. Leonardo International, Milano, 2003.

Pedro Casciaro