Lo spirito di gioventù in san Josemaría

Tra i fenomeni più caratteristici e meno studiati del XX secolo — in cui si snoda tutto l’arco della vita di san Josemaría — bisogna segnalare il nuovo orientamento culturale e sociale che la gioventù riceve e assimila.

Tra i fenomeni più caratteristici e meno studiati del XX secolo — in cui si snoda tutto l’arco della vita di san Josemaría — bisogna segnalare il nuovo orientamento culturale e sociale che la gioventù riceve e assimila. In linea generale, si può dire che i giovani arrivano ad acquisire in questo secolo un carattere paradigmatico, sconosciuto fino ad allora. E, ciò che risulta più insolito, a questo processo si può attribuire un anno e un mese di riferimento: maggio 1968.

Il movimento che si colloca in tale data presenta un indole rivoluzionaria, in modo che siamo soliti riferirci ad esso come alla “rivoluzione studentesca del ‘68”. L’aspetto particolare è che si tratta di una “rivoluzione ritardata”, che avviene quando l’epoca rivoluzionaria ha già visto la sua fine. E, allo stesso tempo, si può registrare il paradosso — lucidamente segnalato da Fernando Inciarte —che in alcuni dei suoi aspetti (quello sessuale, soprattutto) si tratta dell’unica rivoluzione che risponde al modello genuinamente marxista, secondo il quale ciò che dà origine ad un cambio drastico nelle relazioni sociali (sovrastruttura) è una mutazione nel tessuto tecnico scientifico (struttura).

Secondo quanto ha notato Hannah Arendt, l’idea della rivoluzione è tipicamente moderna, perchè risponde ad un modello lineare e progressivo del tempo che comincia a calare nella coscienza europea solo agli inizi dell’Illuminismo. Tuttavia, anche nell’epoca classica, quando lo schema temporale presentava un carattere circolare, si possono registrare alcuni elementi che appariranno secoli dopo nell’impostazione propriamente rivoluzionaria. E questo è, sorprendentemente, più valido per Roma che per la Grecia. Si tratta, soprattutto, dell’ininterrotta presenza dei giovani (i neoi) nella sfera pubblica, con tutti i cambi di mentalità che tale irruzione porta con sè. Certamente, la propria concezione ciclica del divenire temporale provoca che le novità che la gioventù apporta sono prevedibili e ripetitive. La gioventù è per i classici una specie di malattia — caratterizzata dall’immaturità e dalla mancanza di esperienza — che il trascorrere del tempo che la provoca finisce per curare.

Soltanto la novità associata alla moderna idea della rivoluzione implica un’innovazione radicale, vincolata all’originalità ed emergenza che si associano con il concetto di futuro. Così, come per Platone l’ottimo si trova sempre nell’inizio, adesso il futuro è l’epoca di ciò che è migliore e i suoi protagonisti sono proprio i giovani. Non solo tutto il tempo passato è rimasto obsoleto, ma addirittura il presente stesso nasce già vecchio, perchè è più un figlio postumo del passato che un germe dell’avvenire. Sebbene l’inizio di tale valutazione modernista si possa già individuare nel Romanticismo, la concezione tradizionale continua ad essere sociologicamente valida in molti aspetti fino, diciamo, a metà del XX secolo. A partire da allora, tale impostazione dello storicismo rivolto al passato si vedrà rimpiazzato dal futurismo di Heidegger, dove la primazia della proposizione ‘da’ viene sostituita dalla preminenza della proposizione “per”. Se il termine di questa proiezione verso il futuro non era per Martin Heidegger altro che la morte (il Dasein come Sein zum Tode), Herbert Marcuse, il pensatore che più direttamente influenzò la rivoluzione del ‘68, afferma che la meta è data dalla fine dell’utopia, non nel senso della sua scomparsa o conclusione, ma in quello della sua effettiva realizzazione e, per tanto, in quello della cessazione del suo carattere utopico.

Nella linea del marxismo più classico, negli anni settanta si intravede che l’utopia si realizzerà per l’abbondanza dei beni di consumo, di modo che non c’è più necessità del dominio dell’uomo sull’uomo, perchè sostituito adesso dal dominio dell’uomo sulla natura. Siamo, quindi, davanti al consumismo edonista, unito al permissivismo sessuale facilitato dalla diffusione dei mezzi anticoncezionali e dalla crisi della formazione etica in molti centri educativi. Questa è provocata dalla perdita dell’autorità che possedevano le generazioni più adulte, le quali si considerano impossibilitate dalla loro stessa mentalità a relazionarsi con le nuove tendenze che mirano ad un futuro totalmente nuovo.

Se questi aspetti continuano ad essere aggressivamente presenti ancora oggi, perchè costituisce un topico l’idea che il “'68 ha fallito”? La risposta a questo interrogativo sta nel fatto che ci si attendeva una rivoluzione il cui sviluppo ed epilogo fosse completamente atipico, lo stesso che si era visto dalle rivoluzioni tradizionali. Sono queste e non quella del ’68 ad aver realmente fallito, il che è soprattutto certo nel caso della Rivoluzione francese, alla quale si può applicare pienamente l’assioma che la rivoluzione divora i suoi stessi figli, anche se a volte sarebbe più esatto dire che divora i suoi stessi padri. In cambio, il ‘68 opera un profondo cambiamento di mentalità, che perdura rafforzato fino ai nostri giorni. Come sostenevano coloro che parteciparono a quelle giornate di protesta, il loro intento non era assolutamente quello di cambiare la politica e l’economia, bensì quello di pretendere di situare la politica e l’economia nel luogo derivato che le corrisponde, e aprire la strada a un modo più libero e spontaneo di vivere la propria esistenza. Cominciava a comparire un aspetto della cultura postmoderna, che qualche volta ho denominato “nuova sensibilità”. Naturalmente, questo cambiamento di fondo era inteso in maniera molto diversa dai suoi vari protagonisti, e alcuni pensiamo ancora oggi che le tendenze che prevalsero non furono proprio le più positive da un punto di vista cristiano. Ma non è l’obiettivo di questa comunicazione emettere un giudizio di tale tipo.

Quello che ci interessa è sottolineare che il periodo fondazionale dell’Opus Dei, trascorso tra il 1928 e il 1975, coincide — per lo meno in buona parte — con una fase storica in cui le giovani generazioni passano all’avanguardia dell’attività sociale e culturale. (Si ricordi, ad esempio, la significativa ed equivoca influenza del Jugendbewegung). Tutto ciò concorda provvidenzialmente con la specialissima preoccupazione che [san] Josemaría aveva per la formazione della gioventù e, soprattutto, per la partecipazione dei suoi giovani alla maturià cristiana dei loro coetanei. Come in molti altri aspetti dello spirito dell’Opus Dei, tale impostazione non risponde, in alcun modo, ad un opportunismo storico, dal momento che comincia prima che il fenomeno in esame si manifesti con chiarezza e rimanga senza variazioni sostanziali fino al momento presente, quando — nonostante la sopravvivenza virtuale di quelle mutazioni — sono pochi quelli che attualmente conservano memoria di esse.

D’altra parte, già in un’intervista concessa nel 1967 a una rivista universitaria, [san] Josemaría mise in guardia gli studenti sui limiti di una superficiale inquietudine per la solidarietà sociale e sui pericoli che porta con sè la politicizzazione dell’Università: «Tante volte questa solidarietà si limita a manifestazioni verbali o scritte, se non a chiassate sterili e inutili: io misuro la solidarietà sul metro dell opere concrete di servizio, e conosco migliaia di casi di studenti di tante nazioni che hanno rinunciato a costruirsi il loro piccolo mondo privato, dandosi agli altri mediante un lavoro professionale che si sforzano di realizzare con perfezione umana, in’attività di istruzione, di assistenza, di promozione sociale e così via, con uno spirito pieno di gioventù e di gioia»(1). Queste sue parole avevano una speciale attualità nella Spagna della fine degli anni sessanta: «Nell’ipotesi che in un Paese non esista la benchè minima libertà politica, forse l’università potrebbe snaturarsi, cessando di essere la casa comune per diventare il campo di battaglia di opposte fazioni. Ma io ritengo tuttavia che sarebbe preferibile dedicare questi anni ad una seria preparazione, all’acquisto di una mentalità sociale, per far sì che coloro che domani avranno un ruolo direttivo — ossia gli studenti di oggi — non finiscano essi stessi per cadere in questa malattia che è l’avversione per la libertà personale. Se l’Università si trasforma in una tribuna di discussione e di decisione su problemi politici concreti, è facile che si finisca per perdere la serenità accademica e che gli studenti acquistino una mentalità faziosa; e così l’Università e il Paese si trascinerebbero sempre dietro la piaga cronica del totalitarismo, poco importa di quale marca»(2).

L’inquietudine di Josemaría Escrivá per la formazione cristiana dei giovani risponde, radicalmente, alla sua coscienza fondazionale della chiamata universale alla santità, senza distinzione di professione, condizione sociale o età. Non ritiene che l’età giovanile sia esclusivamente un’epoca di preparazione per una fase di maturità nella quale propriamente si dovranno esercitare le virtù umane e soprannaturali. Bisogna praticare tali virtù sin da quando l’uso della ragione comincia a permettere una direzione autonoma della propria esistenza. La chiamata alla santità personale comincia a trovare un’eco nelle nostre orecchie dall’adolescenza, addirittura dall’infanzia. Quando mi recai per la prima volta nella sede di un Centro dell’Opus Dei, intorno ai tredici, quattordici anni, sentii parlare per la prima volta della santità cristiana, non come un ideale che alcuni — molto pochi — avrebbero raggiunto nella loro maturità o anzianità, bensì come un’esigenza perentoria che si prospettava a me stesso non appena cominciai a considerare che non ero più un bambino, anche se quasi tutti quelli che mi circondavano mi trattavano come uno senza speciali responsabilità.

Fu allora, per esempio, che un altro ragazzo della mia età mi disse che faceva tutti i giorni un quarto d’ora di orazione mentale — con l’aiuto di alcuni passi del Vangelo o di alcuni punti di Cammino — e mi incoraggiò a fare altrettanto. Era la metà degli anni Cinquanta. A motivo del regime autoritario cui era sottomessa la Spagna di quell’epoca, non era frequente che si parlasse in pubblico — nemmeno a piccoli gruppi — di questioni politiche, ideologiche o semplicemente culturali. Mi entusiasmò il fatto che in quel piccolo appartamento di Via Padilla, angolo via Serrano, all’interno del madrileño quartiere di Salamanca, si commentassero con totale libertà e rispetto per le opinioni personali alcuni temi — come potevano essere la nascente Comunità Europea e la possibile integrazione della Spagna in essa — di cui io non avevo nemmeno notizia. Da un un approccio quasi esclusivamente devozionale del cristianesimo, ben radicato nella mia famiglia e nella mia scuola, cominciai ad affacciarmi alle sue dimensioni storiche e sociali, e soprattutto ad acquisire a poco a poco coscienza del fatto che i laici cristiani hanno una responsabilità nel libero procedere della vita pubblica dei rispettivi paesi. Passato quasi mezzo secolo da allora, posso affermare che quel seme che allora ricevetti con sorpresa ha rivestito un’importanza fondamentale nella formazione della mia personalità.

Ricordo inoltre in quell’ambiente di grande livello intellettuale alcune riflessioni in merito agli incidenti unversitari che si verificarono nel 1956, e che posso considerare come le prime avvisaglie dell’esplosione di inquietudini studentesche che si sarebbero verificate nella seconda metà degli anni sessanta e la prima degli anni settanta, in relazione con la problematica meno chiaramente politica rispetto agli altri paesi europei e americani. Senza pedanteria nè pretese dogmatiche, giovani che avevano pochi più anni di me, partecipavano — non senza rischio personale — a quegli avvenimenti, ed esponevano approcci sociali che mi sorprendevano per la loro maturità e saggezza.

Quella era un’opera apostolica e culturale diretta ai giovani e diretta da giovani. Era evidente che non erano manipolati da persone più grandi, come se rappresentassero un ruolo che, in fondo, tutti davano per risaputo che fosse puramente decorativo, come era successo durante le mie esperienze precedenti in alcuni movimenti cattolici.

In poche parole, potrei sintetizzare l’impressione del mio primo incontro con il lavoro apostolico dell’Opus Dei, nella seconda metà degli anni Cinquanta, come la scoperta di un ambiente in cui i giovani si prendevano reciprocamente sul serio.

Era casuale tutto ciò? In nessun modo, benchè i motivi di fondo arrivai a comprenderli solo anni dopo.

L’alta e peculiare valorizzazione che [san] Josemaría aveva nei confronti dei giovani non era, assolutamente, opportunismo nè tattica. Non pretendeva con essa ottenere il nostro favore. Di fatto, buona parte dei ragazzi che si mettevano in contatto con gli apostolati dell’Opus Dei in quegli anni — come succede anche oggi — si sentivano sovraccaricati e anche infastiditi perchè venivano messi in modo chiaro davanti ai loro stessi obblighi personali e sociali, tanto che alcuni di essi poi non ritornavano in un centro dell’Opus Dei. Non potevano reggere il peso della responsabilità che si caricava loro sulle spalle, appena entravano in contatto con i mezzi di formazione dell’Opus Dei. Si chiedeva loro — nè più nè meno — che fossero essi stessi a trovare l’incontro con Dio attraverso un rapporto personale con Gesù nell’orazione e nei sacramenti; che non considerassero lo studio o il lavoro come un’imposizione fastidiosa che veniva dall’esterno; e che si convertissero in apostoli dei loro stessi amici e compagni. E, soprattutto, l’accettare o meno questo insieme di sfide dipendeva esclusivamente dalla loro stessa libertà; nessuno li avrebbe spinti affinchè le assumessero; anzi, erano essi stessi a perderle se non fossero arrivati a valorizzare il tesoro della formazione completa che veniva loro offerta, senza alcuna forzatura. “Eccessivo realismo” — direbbe Eliot — per una generazione di giovani superprotetta e, in fondo, infantile.

Tale esigenza, però — che escludeva alla radice compromessi e compensi — non era altro che l’altra faccia di una capacità di attrazione il cui nucleo veniva dato da una dimensione soprannaturale che non escludeva, ma implicava, un atteggiamento umano così brillante che non sarebbe esagerato definire come “affascinante”.

L’attitudine che meglio può definire questa forte attrattiva è un’espressione di Teresa d’Avila che si allaccia, inoltre, con questa componente giovanile alla quale mi sto riferendo: “Vivere la vita come un’avventura”.

Anche se l’Opus Dei era sul punto di compiere i suoi primi trent’anni, [san] Josemaría, che viveva tra noi come Santa Teresa quando invitava la gioventù del suo tempo a iniziare un cammino incerto ed emozionante, ci indirizzava verso qualcosa di ovvio per coloro che avevano conoscenze storiche di base: che tre decenni sono molto poco per un’istituzione che è proiettata nei secoli. Anzi, che durerà fino a quando ci saranno uomini sulla terra, secondo la profonda fede nel carattere soprannaturale dell’impresa, che [san] Josemaría ci contagiava con un’empatia tanto spontanea quanto convincente. Eravamo, quindi, agli inizi: eravamo i primi di quella reazione a catena alla quale dovevamo dare un tono umano che si unisse al tono soprannaturale che le era proprio.

Josemaría Escrivá aveva allora cinquantacinque anni e tra coloro che erano già fedeli dell’Opus Dei, o lo sarebbero stati poco tempo dopo, la maggior parte non ne aveva ancora compiuti venticinque. Questa composizione di età si traduceva in un ambiente giovane che era inconfondibile nelle sedi dei centri dell’Opus Dei, e che contrastava nettamente con l’atmosfera leggermente lugubre e un pò “annacquata” predominante nei locali dei movimenti apostolici dell’epoca. Ciò che richiamava subito l’attenzione di coloro che oltrepassavano la soglia di via Padilla, 1, primo piano a sinistra, era una specie di esultanza contenuta, un’allegria silenziosa che trovava la sua unica motivazione immediatamente percepible nel sorriso aperto di chi ti accoglieva nei corridoi, e nella serenità di coloro che lavoravano nella sala studio o pregavano nel piccolo Oratorio di quell’appartamento, installato con mobili moderni ma al tempo stesso sobri, secondo uno stile che oggi si direbbe “minimalista” e che contrastava con l’horror vacui della decorazione tipica delle abitazioni borghesi del quartiere di Salamanca.

Uno ci metteva settimane, addirittura mesi, a cominciare a captare le profonde radici di questa allegria, che — secondo Cammino, il libro essenziale che ci guidava in quei primi passi — «non è quella che potremmo chiamare fisiologica, da animale sano, ma quella soprannaturale, che procede dall'abbandonare tutto e dall'abbandonare te stesso nelle braccia amorose di nostro Padre-Dio»(3). Coscienza della filiazione divina che si riflette in una tessitura — raccolta anche in Cammino — che rivela il marchio inconfondibile dell’autenticità e dell’ammirazione: «Padre —mi diceva quel ragazzone (che ne sarà stato di lui?), bravo studente della Central— pensavo a quello che lei mi ha detto... che sono figlio di Dio! E per la strada mi sono sorpreso impettito al di fuori e superbo al di dentro... figlio di Dio! Gli consigliai, con coscienza sicura, di fomentare la “superbia”»(4).

Lo stile di questo piccolo libro al quale mi sto riferendo, Cammino, è quello di essere per se stesso uno dei migliori esempi di quest’aria giovanile che si respirava nei primi centri dell’Opus Dei. Quelli che allora leggevamo e meditavamo in quell’ambiente non ci rendevamo conto che il “mondo vitale” che si riflette in quel classico della spiritualità era per la maggior parte studentesco e universitario. Suppongo che davamo per scontato che si trattasse di un libro rivolto proprio a noi, coloro che allora si muovevano tra le aule dell’Università Central, chiamata già allora Università di Madrid. Per questo, dopo poco tempo, mi sorpresi dell’interesse con cui mia madre, una donna di casa colta, ma non propriamente intellettuale, leggeva questa stessa opera, e che addirittura la cuoca asturiana — Azucena — che lavorava in casa dei miei genitori dimostrasse un insolito desiderio che io le insegnassi a leggere per avere una conoscenza diretta di [...] Cammino! Occhio che, con un esempio vivo di quello che san Tommaso d’Aquino chiama “conoscenza per connaturalità”, la “tata” Azucena mi spiegava i punti che lei aveva letto per la prima volta, con una profondità e un’incisività tali da risultarmi decisive nell’ora di decidermi a chiedere l’ammissione all’Opus Dei.

Una volta ancora, nel corso di questi anni, ho potuto comprovare che questo spirito di gioventù non è circostanziale nè congiunturale nella personalità umana e cristiana di [san] Josemaría. Dal punto di vista bibliografico, basterebbe rifarsi a due delle sue opere postume, — Solco e Forgia — il cui ritmo e carattere (pur con peculiarità proprie) sono molto simili a Cammino. Senza entrare nella trattazione profonda e intimista dell’infanzia spirituale presente nel Santo Rosario e, in tutti i suoi scritti, nella considerazione profonda e dettagliata della santificazione delle cose piccole nel lavoro professionale ordinario, tema che viene trattato da vari punti di vista in questo congresso.

Tale spirito passa dagli scritti alla vita conferisce alla stessa storica esistenza dell’Opus Dei uno stile evangelico che risulta evidente a noi che lo viviamo da vicino. Il contenuto della predicazione di [san] Josemaría si centrava quasi sempre nel rappresentare con straordinaria plasticità e vivezza scene della vita di Gesù. Ciò che dava a quella catechesi — informale, continua — realismo e verosimiglianza incomparabili era proprio che riviveva ciò che raccontava: un gruppo di giovani era attorno ad un maestro poco più grande di loro, che parlava con semplicità e autorità del Regno di Dio e del ruolo che era loro assegnato nella realizzazione di questo Regno sulla terra. «Il Signore – si legge in Solco - dopo aver inviato i suoi discepoli a predicare, quando tornano li riunisce e li invita ad andare con Lui in un luogo solitario per riposare... Che cosa avrà loro domandato e raccontato Gesù! Ebbene... il Vangelo continua a essere attuale»(5).

La vita del giovane maestro e dei suoi discepoli si ripeteva fino nei dettagli di una povertà estrema, degnamente sopportata e mai proclamata, fino al punto che non poche volte succedeva addirittura che non avessero dove reclinare il capo quando arrivava la notte. E sembra indubbio che uno dei motivi delle persecuzioni che accompagnarono la quasi totalità della vita di [san] Josemaría poggiasse sul suo rispettoso coraggio nell’ora di affrontare le consuetudini ecclesiastiche obsolete e troppo umane che, come in altri tempi, provocavano ingiustizie e discriminazioni.

L’atteggiamento innovatore di [san] Josemaría è radicale. Non tanto per un’originalità basata sul cambiare gli usi vigenti, bensì perchè cerca sempre ciò che è genuino e originario, quella radice vitale che dà senso alle consuetudini e alle strutture. Per questo, le sue parole risuonano sempre nuove. Non parla di cose di seconda mano, di qualcosa sentito da altri e pigramente ripetuto. E si propone esplicitamente di portare questo modo di esprimersi ai giovani che partecipano al lavoro apostolico: «Facciamo in modo che, sulla bocca della gente giovane, ci sia la tremenda parola soprannaturale che esorta, incita, che è l’espressione di una disposizione vitale compromessa: mai è la smorta ripetizione grottesca di frasi e parole, che non possono essere di Dio»(6). Spontaneità nel parlare che si traduce anche nella scioltezza delle azioni: «Non ho mai voluto vincolarvi, al contrario: ho sempre cercato che agiate con una grande libertà. Nel vostro lavoro apostolico dovete avere spirito di iniziativa, all’interno dell’enorme margine presente nel nostro spirito, per realizzare — in ogni luogo, in ogni ambiente e in ogni tempo — le attività che meglio si adattano alle circostanze dei giovani che seguite»(7).

Bando all’inerzia. Nella dinamica dello spirito non vige questa legge fisica che esprime l’impacciata monotonia della materia. Qui tutto è sul nascere: la vita viene inaugurata ad ogni passo, se ne esce continuamente dai suoi schemi grazie alla funzione innovatrice del pensiero, e risplende di nuovo in virtù della modulata autosufficienza della volontà. Di qui, che il motto di [san] Josemaría per ogni nuovo anno che comincia sia un incisivo “lotta nuova” e non un vago “vita nuova”. In ogni istante di questa battaglia interiore, l’invito a dire: Nunc coepi! , adesso ricomincio. Ed è assai rivelatore che lo rallegrasse sapere che in portoghese i giovani sono chiamati “i nuovi”.

Ogni momento presente porta con sè il peso dei ricordi e si apre alle apettative di progetti esistenziali. Di qui, che la gioventù non sia una specie di tempo di attesa, risultato di ciò che le circostanze e il destino finiscono per procurare. È un epoca densa, piena di senso in se stessa e impregnata di pulsioni che tendono al futuro. E se si vive alla presenza di Dio, lo spirito di gioventù finsice per dare colore a tutto il corso della vita terrena, dal momento che — da una prospettiva di eternità — stiamo sempre cominciando, e la battaglia decisiva è sempre l’ultima, come a [san] Josemaría piaceva sottolineare. In modo che, da una prospettiva teologica, ha sempre senso invocare l’Altissimo, con le parole del Salmo 42, come “al Dio che rallegra la mia gioventù”, incluse un tempo nell’Introito della Messa.

Questo senso dell’iniziare continuamente, inconfondibilmente biblico e specificamente cristiano, attraversa tutto lo spirito dell’Opus Dei e si trova, senza dubbio, alla base della sua storicamente insolita valorizzazione della gioventù — del lavoro, dell’arte, dello sport — incluso dell’infanzia e dello svago (ludens in orbe terrarum). Il Fondatore stesso, riferendosi alla giovane età della gente dell’Opus Dei che — appena raggiunta la maggior età — inviava a cominciare il lavoro apostolico nelle varie città e paesi, era solito dire che «Dio ha fatto la sua Opera giocando con dei bambini».

Come hanno messo in evidenza alcuni teologi, siamo davanti ad una spiritualità battesimale, per il fatto che i sacramenti dell’iniziazione cristiana contengono in germe la chiamata divina — originaria e universale — alla santità in mezzo al mondo, qualsiasi sia l’età o la capacità di discernimento razionale della persona in ogni momento della sua vita. (Sotto quest’ottica non si dovrebbero sollevare restrizioni o generici dubbi sulla canonizzazione dei bambini o minorati psichici con l’uso della ragione, chiamati — esattamente come qualsiasi altro fedele — alla pienezza della vita cristiana. Fortunatamente, la Santa Sede ha dato recentemente passi positivi in tal senso).

Da un punto di vista filosofico, l’ambito concettuale in cui si iscrive questa visione della vita cristiana è quello di una metafísica creazionista, nella quale si esclude sia l’inclinazione verso una specie di memoria ontologica, nella quale il passato continua a battere nel presente, come nel caso della dialettica hegeliana, sia l’esasperata discontinuità della “creazione continua” di segno cartesiano. Si adatta, in cambio, senza violenza alla visione tomista dell’essere come atto emergente dell’ente concreto che si autopone.

Le ripercussioni funzionali di questa positiva valorizzazione dello spirito di gioventù si apprezzano in molteplici aspetti della vita quotidiana e dell’attività apostolica dei fedeli dell’Opus Dei. Il lavoro con la gioventù — che [san] Josemaría volle mettere sotto il patrocinio dell’Arcangelo San Raffaele — presenta un carattere prioritario per tutti i componenti della Prelatura, indipendentemente dalla loro età, stato civile e professione. E così, già il 9 gennaio 1935, [san] Josemaría poteva dire a tutte e tutti che, «vedendo nelle vostre mani questa gioventù, speranza dell’Opera [...], capirete la necessità di sacrificarvi nelle scuole e nei collegi universitari, per ottenere, con personale adatto, lo sviluppo dell’Opera che Gesù ci ha affidato »(8). E, come io stesso in quei pochi anni di vita dell’Opus Dei fino ad allora trascorsi avevo già potuto percepire le difficoltà starordinarie che — per motivi esterni — questo lavoro con la gioventù poteva comportare, aggiungeva: «Lavorate, pieni di speranza: Piantate, innaffiate, confidando in Colui che fa crescere, Dio (I Cor. III, 7). E se arrivasse lo scoraggiamento, se questa tentazione fosse permessa dal Signore; o davanti ai fatti apparentemente avversi; o nel considerare, in alcuni casi, l’inefficacia dei vostri lavori apostolici di formazione; o se qualcuno, come a Tobia padre, vi chiedesse: dov’è la tua speranza? [...], alzando i vostri occhi sulla miseria di questa vita, che non è il vostro fine, rispondete con quell’uomo dell’Antico Testamento, forte e speranzoso quoniam memor fuit Domini in toto corde suo (Tob. I, 13), perchè sempre mi ricordai di Dio con tutta l’anima: filii sanctorum sumus, et vitam illam expectamus, quam Deus daturus est his, qui fidem suam nunquam mutant ab eo; siamo figli di santi, e attendiamo quella vita che Dio deve dare a coloro che mai hanno abbandonato la fede in Lui (Tob. II, 18)»(9). In qualsiasi caso, non deve mai essere trascurato questo lavoro di formazione completa dei giovani.

Se, nella vita di una persona dell’Opus Dei, il lavoro apostolico con la gente giovane non termina mai, nemmeno può mai dare per conclusa la sua stessa formazione, nel terreno professionale e culturale, come nel campo teologico e di approfondimento nello spirito dell’Opus Dei, nel quale — per la sua profondità soprannaturale e umana — è sempre possibile scoprire nuove sfumature e aspetti.

In definitiva, secondo il Fondatore dell’Opus Dei, avere spirito di gioventù non equivale al topico “essere giovane di spirito”, espressione che non poche volte nasconde un rassegnato conformismo, che finisce con l’accettare come irrimediabili i diagnostici coincidenti di Gogol e Martin Amis, secondo i quali l’età “non aggiunge nulla”. Per [san] Josemaría lo spirito di gioventù consiste nell’esercitare in ogni tempo una generosità anticonformista, che non adotta un atteggiamento conservatore nè con i propri difetti, nè con le ingiustizie della società che ci circonda.

« Sei calcolatore. —Non dirmi che sei giovane. La giovinezza dà tutto quello che può: dà sé stessa, senza misura»(10).

Note

1. Colloqui, 75.

2. Ibidem, 77.

3. Cammino, 659.

4. Ibidem, 274.

5. Solco, 470.

6. Lettera, 24-X-1942, n. 58.

7. Ibidem, 24-X-1942, n. 46.

8. Istruzione, 9-I-1935, n. 4.

9. Ibidem, 9-I-1935, n. 19.

10. Cammino, 30.

Alejandro Llano è professore Ordinario di Filosofia e Direttore del Dipartimento presso l’Università di Navarra, della quale è stato anche Rettore. Oltre ai suoi lavori sulla filosofia dell’idealismo tedesco, ha studiato questioni di ontologia e teoria della conoscenza in Aristotele e Tommaso d’Aquino, nel dialogo con impostazioni dell’analisi logico-linguistica. Si è inoltre occupato di problemi di filosofia politica e teoria della cultura.

Testo pubblicato negli atti del Congresso internazionale “La grandezza della vita quotidiana", vol VII, Gioventù: Costruire il futuro.