Racconto della morte di San Josemaría. Cerco il tuo volto!

Il 26 giugno del 1975, San Josemaría si alzò molto presto, come al solito, fece la consueta mezz’ora di orazione e celebrò la messa verso le otto.

Il 26 giugno 1975, si alzò molto presto, come al solito, fece la consueta mezz’ora di orazione e celebrò la messa verso le otto. Dopo la veloce colazione incaricò due dei suoi figli di far visita a un amico di Paolo VI perché questi portasse ancora al Papa il suo attestato di fedeltà e di unione. Doveva far giungere al Papa questo messaggio: «Da anni offro tutti i giorni la santa messa per la Chiesa e per il Papa. […] Oggi stesso ho rinnovato questa mia offerta a Dio per il Papa».

Alle nove e mezza partì per Castelgandolfo dove avrebbe incontrato in una riunione familiare e formativa le sue figlie del Collegio Romano di Santa Maria. Era una giornata molto calda. Durante il tragitto recitarono il rosario e conversarono piacevolmente.

«Voi avete anima sacerdotale», disse a quelle giovani donne una volta arrivato; «ve lo ripeto come tutte le volte che vengo qui. Anche i vostri fratelli non sacerdoti hanno anima sacerdotale. Con questa anima sacerdotale potete e dovete collaborare affinché, con la grazia del Signore e col sacerdozio ministeriale, noi sacerdoti dell’Opera possiamo fare un lavoro efficace. […] Immagino che da tutto traete motivo per parlare con Dio e sua Madre benedetta, Madre nostra, e con San Giuseppe, nostro Padre e Signore, e con i nostri angeli custodi, per aiutare questa Santa Chiesa, nostra Madre, che ha tanto bisogno, che in questo periodo sta passando un brutto momento nel mondo. Dobbiamo amare molto la Chiesa e il Papa, chiunque esso sia. Chiedete al Signore che sia efficace il nostro servizio per la Chiesa e per il Santo Padre».

Passati una ventina di minuti si sentì male. Fecero ritorno a Roma. Lo accompagnavano don Álvaro del Portillo e don Javier Echevarría. Giunto a Villa Tevere, salutò il Signore nel tabernacolo e si diresse verso la stanza di lavoro. Varcata la porta e dopo aver rivolto uno sguardo amorevole all’immagine della Madonna, disse a don Javier:

«Javi!… Non mi sento bene».

E si accasciò al suolo.

Nel mese di maggio, il fondatore dell’Opus Dei compì il suo ultimo viaggio visitando il santuario di Torreciudad, allora quasi terminato. In quei mesi ripeteva spesso come giaculatoria le parole bibliche: «Cerco il tuo volto». «Signore, ho una gran voglia di vederti in viso, di ammirare il tuo volto, di contemplarti!

Durante il suo soggiorno in Messico, nel 1970, aveva contemplato un dipinto che raffigurava la Madonna di Guadalupe mentre consegna una rosa all’indio Juan Diego. Aveva detto che gli sarebbe piaciuto morire così: guardando la Madonna mentre ella gli offre un fiore. Fu l’immagine della Madonna di Guadalupe, che presiedeva la stanza di lavoro, a raccogliere il suo ultimo sguardo sulla terra.

Il suo corpo, rivestito dei paramenti sacerdotali, fu disposto ai piedi dell’altare di Santa Maria della Pace, oggi chiesa prelatizia. Intorno alla salma si succedettero i suoi figli e figlie in veglia ininterrotta. Nel dolore, ricordavano quello che aveva spesso ripetuto negli ultimi tempi: «Io non sono necessario. Vi potrò aiutare di più dal cielo. Voi saprete fare meglio di me: io non sono necessario».

La notizia della morte percorse istantaneamente Roma e rimbalzò in tutto il mondo. Una fiumana ininterrotta si riversò su Villa Tevere. Il volto di San Josemaría emanava una quiete ineffabile. Cardinali e vescovi si avvicendarono.

I funerali a Roma e le messe in suffragio in tutto il mondo furono un singolare momento di dolore, di gioia e di conversione. Era morto un padre e un santo.

Ma la fama di santità lo aveva circondato già in vita, fin dai primi anni del ministero sacerdotale. Tutta la sua persona parlava di Dio. Frequentandolo ci si sentiva attirati verso il Signore. Anche in quegl’incontri affollati riusciva a non essere al centro dell’attenzione, pure essendolo, per volgere i cuori verso Gesù Cristo. Quanti partecipavano alla sua messa rimanevano commossi:

«Ecco un sacerdote innamorato di Dio!».

I sacerdoti e i seminaristi che parteciparono ai corsi di ritiro da lui predicati in tutta la Spagna tra il 1938 e il 1945 conservarono per tutta la vita il ricordo del fuoco ardente di amor di Dio trasmesso loro da «quel santo sacerdote». Già monsignore Eijo y Garay, il vescovo di Madrid che agli inizi dell’Opus Dei ne aveva compreso lo spirito e aveva protetto San Josemaría, era solito commentare: «Spero che queste saranno le mie credenziali nel presentarmi al giudizio di Dio».

Gli anni precedenti: tempo di pregare

Durante il suo soggiorno in Messico, nel 1970, aveva contemplato un dipinto che raffigurava la Madonna di Guadalupe mentre consegna una rosa all’indio Juan Diego. Aveva detto che gli sarebbe piaciuto morire così: guardando la Madonna mentre ella gli offre un fiore. Fu l’immagine della Madonna di Guadalupe, che presiedeva la stanza di lavoro, a raccogliere il suo ultimo sguardo sulla terra.

Il 22 dicembre 1971 arrivò a Villa Tevere una bellissima, antica immagine della Madonna. Era una scultura in legno di grandezza quasi naturale e… bisognosa di restauro: un regalo al Padre dai suoi figli italiani. Al vederla, San Josemaría le rifvolse parole piene di affetto mentre si domandava da quale chiesa sarebbe stata rimossa. Ordinò di procedere al più presto al restauro e volle che nel frattempo venisse collocata in un luogo adeguato e che avesse sempre ai suoi piedi dei fiori freschi. Voleva così riparare almeno un poco per tutte le immagini «dimesse», i confessionali soppressi, l’eucaristia ignorata, i dogmi attaccati, l’obbedienza derisa, la pietà prosciugata.

Tempo di pregare. Così lo definì il Padre. Quegli anni erano più che mai tempo di preghiera. E di sofferenza. Nel 1970 distribuiva corone di rosario a chiunque veniva a trovarlo chiedendo di pregare per la Chiesa. Tempo di rivolgersi alla Madre della Chiesa perché ponesse fine al «tempo della prova», così diceva. E iniziò una serie di pellegrinaggi mariani, con la mestizia nel cuore, solo mitigata da una robusta speranza soprannaturale e da un istintivo buonumore.

«Andrò a visitare due santuari della Vergine», scrisse ai suoi figli prima di un viaggio nella penisola iberica. «Ci andrò come un credente del XII secolo: con lo stesso amore, la stessa semplicità, la stessa gioia. Vado a supplicarla per il mondo, per la Chiesa, per il Papa, per l’Opera […]. Unitevi alle mie preghiere e alla mia messa». Nell’aprile 1970 si recò a Fatima e a Torreciudad, la chiesetta montana cui era stato portato dopo la sua guarigione del 1904 e dove per sua iniziativa si stava innalzando allora un grande santuario.

Con questo spirito, nel mese di maggio 1970 viaggiò al santuario di Guadalupe, in Messico. Fece una novena alla Madonna, pregando per la Chiesa e per l’Opera. Inginocchiato in una piccola tribuna, recitava il rosario e parlava a voce alta a Maria con commovente fiducia filiale. «Madre nostra, poiché ora non ho altro, ti porto delle spine, quelle che ho nel cuore; ma sono sicuro che, con te, si trasformeranno in rose… Fa’ che in noi, nei nostri cuori, fioriscano per tutto l’anno piccole rose, quelle comuni, della vita ordinaria, ma tutte piene del profumo del sacrificio e dell’amore. Ho detto intenzionalmente piccole rose, che sono quelle che mi si adattano, perché in tutta la mia vita ho saputo occuparmi soltanto di cose normali, e spesso non ho saputo nemmeno portarle a compimento: ma sono certo che è nelle occupazioni abituali, quelle di ogni giorno, che tu e tuo Figlio mi aspettate».

E in un altro momento continuava: «Sono qui perché tu puoi, perché tu ami! Madre mia, Madre nostra, […] evitaci tutto quello che ci impedisce di essere tuoi figli, tutto ciò che tenta di cancellarci la via o di snaturare la nostra vocazione […]. Ave, o Maria, Figlia di Dio Padre; ave, o Maria, Madre di Dio Figlio; ave, o Maria, Sposa di Dio Spirito Santo: ave, o Maria, tempio della Trinità Beatissima: più di te, solo Dio! Mostraci che sei Madre! Fa’ vedere chi sei!».

Forse la risposta fu che riprese a sentire le locuzioni interiori, fenomeno mistico straordinario. Il 6 agosto dello stesso anno, mentre si trascorreva giorni di riposo a Premeno: Clama, ne cesses!, prega, non stancarti mai di pregare. Con questo spirito, il 30 maggio 1971, Pentecoste, fece la consacrazione dell’Opera allo Spirito Santo. «Sapete», spiegò, «che il Padre non ama proporre devozioni particolari alle sue figlie e ai suoi figli. Mi piace che ciascuno abbia le proprie devozioni, poche, semplici e solidamente radicate, e che ogni tanto le interrompiate, per riprenderle poi con maggior spirito di pietà. Ma sempre devozioni vostre, di ciascuno. Tuttavia, nel corso della storia dell’Opera abbiamo sentito il bisogno di fare tutti insieme – cor unum et anima una – la consacrazione alla Sacra famiglia di Nazaret, la consacrazione dell’Opera al Cuore dolcissimo di Maria e al Cuore sacratissimo di Gesù. E adesso, mentre per divina bontà contempliamo il fiorire dell’Opus Dei in tante anime di ogni razza, lingua e nazione, farò per la prima volta la consacrazione dell’Opera allo Spirito Santo, nel prossimo giorno di Pentecoste. In questo momento è molto necessaria. Sarà un atto di donazione e di preghiera personale, di ciascuno, e anche corporativo».

Preparò il testo della consacrazione con grande cura, e volle che la recitasse per la prima volta don Álvaro. Il Padre era profondamente raccolto in preghiera. Le grandi vetrate del presbiterio riproducevano luminose la Pentecoste.

«Ti supplichiamo di assistere sempre la tua Chiesa, e specialmente il Romano Pontefice perché ci guidi con la sua parola e con il suo esempio, e affinché raggiunga la vita eterna insieme al gregge che gli è stato affidato; che mai manchino i buoni pastori e che tutti noi fedeli, servendoti con santità di vita e integrità di fede, raggiungiamo la gloria del cielo».

E poi: «Concedi la pace alla tua Chiesa affinché tutti i cattolici, pieni dello Spirito Santo, diano sempre agli uomini testimonianza decisa e veritiera della fede, dimostrazione effettiva del loro amore e ragione della loro speranza».

E da speranza vera era sostenuto il Padre quando diceva agli alunni del Collegio Romano il 4 aprile 1971:

«Voi che siete giovani vedrete come le acque rientreranno nell’alveo, come lo Spirito Santo acquieterà l’ambiente».

Il 23 agosto di quell’anno il Padre si trovava a Caglio, presso il Lago di Como. E mentre leggeva il giornale al mattino, dopo aver celebrato la messa, ricevette un altro incoraggiamento mistico: Adeamus cum fiducia ad thronum gloriae ut misericordiam consequamur, andiamo fiduciosi al trono della gloria per ottenere misericordia. Notò la differenza con la frase della Lettera agli ebrei: trono di grazia/trono di gloria, e capì che Dio gli chiedeva di rivolgersi alla Madonna.

Anche le giaculatorie che in quel frangente insegnò ai suoi risentono del clima di preghiera fiduciosa: Cor Iesu sacratissimum et misericors dona nobia pacem!, Cuore sacratissimo e misericordioso di Gesù, donaci la pace. E ancora: Signore Dio mio, nelle tue mani abbandono il passato, il presente e il futuro, il piccolo e il grande, il molto e il poco, il temporale e l’eterno. Era un atto d’abbandono perfetto.

Un incontro durante i viaggi di catechesi del 1974.

Viaggi di catechesi: per fortificare nella fede

Dal 1970, il fondatore dell’Opus Dei volle intraprendere lunghe catechesi itineranti in vari paesi. Se fra i credenti si diffondevano il dubbio e l’incertezza, era il tempo di «scendere sull’arena», come amava dire, per fortificare nella fede e proclamare la buona dottrina a tante persone. Il metodo sarebbe stato quello a lui congeniale del contatto personale, che personale restava con ciascuno dei presenti, malgrado le folle che venivano ad ascoltarlo. Domande e risposte, battute e preghiera, aneddoti e verità proclamate a voce alta.

Il tema infondo era uno solo: la Chiesa. Lo diceva poco tempo prima d’intraprendere il viaggio di due mesi in Spagna e Portogallo.

«Di solito non ho preoccupazioni. Di occupazioni, invece, ne ho molte, una dietro l’altra. Non ho orologio, perché non ne ho bisogno: quando finisco una cosa ne comincio un’altra e sto tranquillo. Ma la grande occupazione della mia vita e della mia anima è amare la Chiesa, perché è una Madre con tanti figli sleali, che dimostrano con i fatti di non amarla. Tu e io dobbiamo amare molto la Chiesa e il Romano Pontefice».

A Pamplona, che fu la prima tappa, davanti a moltissime persone di ogni ceto sociale, insegnava:

«Non è forse vero che un fedele si avvicina a un sacerdote per cercare sostegno, luce e consiglio? Molte volte ci vanno pieni di speranza, di buona volontà, con il desiderio di essere aiutati, ma non trovano né il consiglio, né il sostegno, né la fede: trovano solo dubbi e tenebre. Non voglio pensare che questo succeda. Non voglio! Preghiamo tutti insieme perché questo non avvenga». Sapeva benissimo che invece avveniva. Proprio Pamplona aveva visto svuotarsi in un attimo l’enorme e prolifico seminario.

Teneva particolarmente agli incontri con sacerdoti, con loro poteva permettersi un discorso più diretto. Diceva a Bilbao:

«Ci hanno sempre detto che un sacerdote non si salva e non si condanna da solo […]. Quindi, cerchiamo di salvare i sacerdoti, è uno stretto dovere di giustizia. Non li salveremo chiudendoci a riccio: dobbiamo trattarli con affetto, sforzarci. Non possiamo formare un gruppetto isolato, dobbiamo aprirci così, con le braccia in croce. Facciamogli vedere che li amiamo per davvero!».

Le «scorribande», come le chiamava, iniziarono nel maggio 1970 nel Messico, in concomitanza con il pellegrinaggio a Guadalupe. Ricevette molti gruppi di persone diverse. C’era tra questi dei contadini dello Stato di Morelos, dove i membri dell’Opus Dei avevano aperto delle scuole agricole. A loro diceva: «Tutti, voi e noi, siamo preoccupati che possiate migliorare, che usciate da questa situazione, in modo da non avere preoccupazioni economiche… Cerchiamo anche che i vostri figli acquistino cultura: vedrete come tutti insieme ci riusciremo e che coloro che hanno talento e desiderio di studiare arriveranno molto in alto. All’inizio saranno pochi, ma con gli anni… E come faremo? Come chi fa un favore?… No, figli miei, questo no! Non vi ho detto che siamo tutti uguali?».

Spagna e Portogallo

Nel 1972 fu impegnato in un giro di due mesi in diversi città della Spagna e del Portogallo, con programmi fitti di incontri di ogni tipo, di cui è rimasta testimonianza cinematografica. Fu un viaggio spossante, che contrasta con la forza d’animo che il Padre emana in quei filmati. Si sottoponeva alle più svariate domande, rispondeva con garbo, con simpatia, con la semplicità di un catechista ma con la dottrina di un teologo e la fede di un santo. La gente gli faceva domande sui sacramenti, sulla devozione alla Madonna, sulla preghiera, sulla famiglia, sulle questioni, insomma, che venivano dibattute nell’opinione pubblica non senza che ne derivasse perplessità nelle anime.

«Negli incontri con nostro Signore gli apostoli trattavano di tutto: in multis argumentis, dice la Sacra Scrittura. I nostri incontri hanno quel sapore evangelico: sono un modo incantevole di parlare della dottrina e della pratica della dottrina di Gesù Cristo, in famiglia. Vedete che non esagero quando dico che l’Opus Dei è una grande catechesi».

Incoraggiava le persone a fare domande «impertinenti» e molti non se lo facevano ripetere.

«Padre, come celebra la messa e come fa il ringraziamento della comunione?».

«Questi vogliono che mi confessi in pubblico!».

Ma rispondeva, parlando del suo impegno per prolungare il ringraziamento fino e mezzogiorno e da quel momento in poi prepararsi alla messa seguente. Chi chiedeva aveva ottenuto un suggerimento stimolante.

«Padre, quali virtù ritiene più importanti per un insegnante?».

«Hai bisogno di tutte, ma soprattutto devi manifestare ai ragazzi una grandissima lealtà».

«Padre, come aiutare gli amici a recuperare la fede che dicono di avere perso?».

«Se hanno avuto veramente la fede, forse non l’hanno persa. Può darsi che sopra la fede ci sia adesso un guscio, e un altro e un altro ancora: una serie di strati di indifferenza, di letture mal digerite, forse di ambienti e di consuetudini deviate. Ti consiglio, prima, di pregare».

«Padre, qualcuno dice che bisognerebbe insegnare tutte le religioni ai bambini affinché scelgano da grandi…».

E via di questo passo con domande e risposte di sorprendente spontaneità. La sua predicazione in quelle settimane raggiunse più di centocinquantamila persone. E in ogni città volle anche visitare alcuni monasteri di clausura per testimoniare il suo amore per la vita contemplativa e chiedere preghiere alle religiose.

Quel viaggio contava anche sulla preghiera di tante monache di clausura. Fu una manifestazione molto visibile dell’amore che il fondatore aveva per lo stato religioso e in particolare per le vocazioni contemplative. A lui Dio aveva chiesto di portare nel mondo un altro spirito. Ma i carismi nella Chiesa sono complementari, non opposti. Anche le religiose lo volevano ascoltare, perché molte di quelle comunità cooperavano con le loro preghiere all’attività apostolica dell’Opus Dei in tutto il mondo. Lo ricordò al Padre, invitandolo, la Badessa del monastero di S. Giuseppe di Alloz, nella Navarra. E alle Carmelitane di Cadice diceva: «In tutto il mondo vi sono molti conventi e monasteri che hanno con noi questa unione spirituale. Ci fanno partecipare dei loro beni spirituali, che sono tanti, e noi li rendiamo partecipi del nostro lavoro apostolico. Perciò mi sento tra voi come un fratello tra le sue sorelle». E alle cistercensi di Alloz: «Non posso dire di invidiarvi, perché la mia vocazione è quella di essere contemplativo per le strade del mondo». Le mise in guardia contro i pericoli del rilassamento della disciplina religiosa, insistendo con energia: «Madre badessa, fortezza!, fortezza!, fortezza!». Le monache ascoltavano rapite, fra lacrime e sorrisi.

A Madrid, non poté esimersi dal salutare le Agostiniane recollette del Real Patronato de Santa Isabel, del quale era stato rettore. La loro chiesa in tempi lontani era stata data alle fiamme, ma il presbiterio, l’altare e la grata da cui le monache si comunicavano suscitarono in lui ricordi molto vivi. In Portogallo visitò il Carmelo di Coimbra e incontrò ancora suor Lucia. A Valencia visitò le Carmelitane a Puzol, un monastero immerso in un aranceto, e disse loro:

«La Chiesa sarebbe arida senza di voi e noi non potremmo dire: attingete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza. È qui che attingete le acque di Dio, perché noi possiamo trasformare la terra arida in un giardino pieno di aranci. Senza il vostro aiuto non faremmo nulla, per questo vengo a ringraziarvi. Siate mille volte benedette!».

La sua ultima catechesi in una clausura ebbe luogo nel monastero delle Clarisse di Pedralbes, a Barcellona. Quando il Padre entrò nella chiesa, lo accolse il suono gioioso dell’organo. Nel parlatorio, accanto alla cappella del Santissimo, le confortava: «Non vi mancheranno vocazioni se non vi imborghesite, se tenete viva la fiamma dell’Amore, perché l’Amore fa i grandi miracoli».

Erano anche quelli incontri familiari, semplici, dove la battuta stava bene accanto al discorso serio e perfino mistico. E a tutte le religiose, prima di accomiatarsi, chiedeva l’elemosina della preghiera.

America del Sud

Tra maggio e agosto 1974 compì un viaggio in America del Sud: Brasile, Argentina, Cile, Perù, Ecuador e Venezuela. Di nuovo voleva confermare le anime nella fede, nell’amore alla Chiesa e al Papa, e nella fedeltà al Magistero. Gli incontri furono dappertutto numerosi e molto affollati, come testimoniano ancora le immagini filmate. Amava recarsi in pellegrinaggio al santuario mariano più rappresentativo di ogni città.

In Perù un grave disturbo bronchiale lo costrinse a letto con malcelata preoccupazione dei medici. E ancora non rimesso del tutto volle riprendere la predicazione. Quando il primo agosto arrivò in Ecuador, il soroche o mal d’altitudine lo colse con inusitata violenza e i medici gli prescrissero di sospendere l’attività. Ma si sforzò, sia lì che più tardi in Venezuela, per prendere parte a diversi incontri pure con febbre alta.

San Josemaría Escrivá contagiava con la sua allegria e incoraggiava con il suo affetto e la sua fortezza

Nel febbraio 1975 tornò in America. Quella volta visitò il Venezuela e il Guatemala. In quest’ultima tappa cadde di nuovo malato: era rimasto così senza forze che fu costretto a porre fine al viaggio prima del previsto.

In tutti gli incontri americani insistette sulla necessità della conversione ponendo l’accento sul ricorso frequente alla confessione sacramentale. Diceva che se anche una sola persona si fosse confessata avrebbe considerato ben impiegato il viaggio.

Rimase molto colpito da quei paesi, dello sviluppo dell’Opera e delle enormi possibilità che offrivano all’apostolato. Il Brasile lo fece innamorare. In un incontro con un gruppo di donne dell’Opera, per esempio, notò – come altre volte – che rappresentavano molte razze e molti paesi, per via del grande mescolamento. Alcune avevano sembianze giapponesi (erano nissei, cioè figlie di giapponesi immigrati), altre africane, altre avevano tratti nordici, orientali o latini. Pendevano dalle sue labbra.

«Il Signore è contento delle mie figlie del Brasile. Ma ne vuole di più. Si è innamorato di voi e non si accontenta che gli diate qualcosina. Vi vuole tutte intere! In questo modo accenderà il fuoco dell’amore, non solo in Brasile, ma dovunque, partendo dal Brasile… In Brasile e dal Brasile. Da qui dovete andare in tutti gli altri continenti. Tutta l’Asia! Tutta l’Africa! In Brasile sono venuti tanti africani contro la loro volontà. Io chiedo al Signore che ci porti molte africane».

E in un altro incontro:

«Il Brasile! La prima cosa che ho visto è una madre grande, bella, feconda, tenera, che apre le braccia a tutti senza fare differenza di lingua, di razza, di nazione e che tutti considera suoi figli. Gran cosa il Brasile! Poi ho visto che vi trattate in un modo fraterno e mi sono commosso».

Non li benedisse con la formula usuale ma, tracciato su di loro il segno della Croce, come un antico profeta e patriarca pronunciò lentamente queste parole:

«Moltiplicatevi,

come i granelli di sabbia delle vostre spiagge,

come gli alberi delle vostre montagne,

come i fiori dei vostri campi,

come i grani aromatici del vostro caffè.

Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo».

L’Argentina non fu da meno. I filmati degli incontri mostrano non solo la folla ma il grado di commozione di quelle persone convinte di stare davanti a un santo. Le domande toccarono i vari temi del momento, ma ce ne furono alcune particolarmente emozionanti e drammatiche. Come questa:

«Padre, chiedo a Gesù di fare il miracolo di Nain».

Udendola singhiozzare, il Padre le venne in aiuto, mentre tra la folla si fece un gran silenzio.

«Dimmi, dimmi, con calma».

Chi stava accanto alla donna le prese l’appunto con la domanda e lesse in vece sua:

«Sto chiedendo a Gesù che ripeta il miracolo di Naim. Sono vedova e ho un unico figlio che mi ha dato la gioia più grande della mia vita quando fu ordinato sacerdote, ma anche la pena più grande, perché ora sta comportandosi molto male. Vorrei chiederle di pregare per la sua fedeltà e per la mia fortezza, perché riesca ad aiutarlo».

«Sì, figlia mia, amalo di più. Ama molto tuo figlio. Forse noi non preghiamo abbastanza… Tu sì che preghi molto; io pregherò di più. Siamo in pochi a pregare e preghiamo poco; dobbiamo pregare molto per i sacerdoti, per tutti i sacerdoti! Tuo figlio andrà avanti, sarà un grande apostolo. Prega, insisti. Il Signore ti ascolta, ma vuole che preghi di più. La mia preghiera si unisce alla tua e sono sicuro che i cuori di tutti noi, da chi sta là in alto fino all’ultimo qui sotto, sono animati dallo stesso desiderio di chiedere al Signore che tuo figlio sia un santo; lo sarà. Vedi, c’è una specie di malattia. Tu hai posto nell’anima di tuo figlio, con la grazia del Signore, il germe della vocazione. Continua a pregare che il seme non sia senza frutto. Lo vedrai di nuovo produrre rami, fiori e frutti. Stattene tranquilla, figlia mia. Siamo tutti con te e con tuo figlio, che merita affetto e comprensione! È una malattia che c’è in giro. Preghiamo il Signore per i sacerdoti, per la santità dei sacerdoti. Sei una mamma coraggiosa. Dio ti benedica! Il Signore ti ascolta! Sta’ tranquilla!».

Nel viaggio di ritorno il Padre era taciturno, si vedeva che pregava e ogni tanto ripeteva a don Emilio – allora a capo dell’Opera in Argentina – che bisognava aiutare quel sacerdote. Era molto addolorato.

Il Padre arrivò a Santiago del Cile il 28 giugno 1974. Il paese aveva attraversato opposte vicende politiche dalla quali non si era ancora affrancato del tutto. Perciò il Padre, in vista degli incontri con persone variegate volle chiarire:

«Parlo solo di Dio e dell’anima. Non parlo mai di politica». Per poi stabilire il principio di base: «Voi cileni dovete cercare di comprendervi, di perdonarvi, di convivere e di amarvi». Gli saranno venute in mente certamente le dolorose vicende della guerra civile spagnola, una atrocità da non ripetere.

Le carmelitane scalze lo pregarono di poterlo incontrare, pur promettendo ugualmente la loro preghiera se non gli fosse stato possibile. Ma ci andò e volentieri. «Nutro un grande amore per la vocazione delle anime contemplative», disse loro, «perché nell’Opus Dei siamo contemplativi nel mezzo della strada. Ci capiamo molto bene e le Madri Carmelitane di tutto il mondo ci capiscono molto bene e ci aiutano con la loro preghiera. Vengo a chiedere un’elemosina di preghiera: pregate. Sapete bene che la Chiesa sta andando molto male. No, la Chiesa no; la Chiesa è Santa, è la Sposa di Cristo, sempre bella, sempre giovane, sempre senza macchia, sempre dolce e buona… Noi ecclesiastici, invece…! Pregate».

Le metteva in guardia contro chi avesse tentato di imporre loro cambiamenti: «Non cedete mai su nulla, non siate ingenue, perché il diavolo sta cercando chi divorare e voi siete un boccone prelibato […]. Se rovinano una colombaia come questa, distruggono una grande forza della Chiesa. Siate sante; se lo siete, ci aiuterete a essere santi. Pregate affinché anche noi sacerdoti lo siamo. E pregate per l’Opus Dei, per gli uomini e le donne che camminano su tutte le strade del mondo cercando di renderle divine».

Durante quei giorni si intrattenne con il Cardinale Arcivescovo di Santiago, tenne venticinque riunioni pubbliche e altrettante private, senza dare segni di stanchezza. Insisteva sul Sacramento della Penitenza, necessità indispensabile delle anime.

«La confessione, la confessione! Cristo ha elargito misericordia alle creature. Le cose non vanno bene perché non ricorriamo a Lui per ripulirci, purificarci, infiammarci […]. Il Signore sta aspettando che molte persone facciano un bel bagno nel Sacramento della Penitenza! Ha preparato per loro un gran banchetto nuziale, il banchetto dell’Eucaristia, l’anello dell’alleanza e della fedeltà e dell’amicizia eterna. Bisogna che la gente si confessi! Voi, figlie e figli, portate le anime alla Confessione. Non rendete inutile il mio viaggio in Cile! Bisogna che molte persone si avvicinino al perdono di Dio!».

Ma il Padre si andava stancando. E in Peru ed Ecuador, alla stanchezza si aggiunse il male d’altitudine, cosicché dovete fare meno incontri. In Peru volle baciare le mani a tutti i suoi figli sacerdoti che non aveva visto dopo l’ordinazione e tenne anche una tertulia indimenticabile con sacerdoti diocesani. Ma toccò anche un punto delicato in quelle zone, con chiarezza e con amore, senza polemizzare: «Il dolore, sopportato per Amore, è pieno di sapore, è stupendo. Volersi liberare dal dolore, dalla povertà, dalla miseria, è una bellissima cosa, ma non è questa la liberazione. Liberazione è un’altra cosa. Liberazione è… sopportare con gioia la povertà, sopportare con gioia il dolore, sopportare con gioia la malattia, sopportare con un sorriso il fastidio della tosse!». E un po’ alludeva a se stesso, malato in quei giorni.

L’altitudine di Quito lo mise al tappeto. Se ne dispiaceva con i suoi figli che lo avevano atteso con tanta voglia.

«È colpa dell’altitudine, Padre, siamo troppo in alto».

«È chiaro che non sono un “uomo d’alta quota”. Perciò Quito non mi ha fatto uno scherzo. È stato nostro Signore, che li fa volutamente e gioca con noi. Lo dice lo Spirito Santo: ludens coram eo omni tempore, ludens in orbe terrarum, su tutta la terra si diletta con noi uomini, come un padre con un figlio piccolo. Ha detto: a costui, che è tanto innamorato della vita d’infanzia, di una vita d’infanzia speciale, ora gliela faccio vedere io. E mi ha ridotto come un infante. C’è di che divertirsi!».

In Venezuela stava meglio, pur con un po’ di febbre. Ma dovette sostare per un periodo molto breve, i medici non si fidavano. E salutando il Padre disse:

«Me ne vado come don Chisciotte della Mancha, col cavallo fatto a pezzi».

E promise di tornare.

Così fu. Il 4 gennaio 1975 era di nuovo a Caracas e si fermò fino al 15 febbraio, quando partì alla volta di di Città del Guatemala. Il soggiorno in Guatemala ebbe la caratteristica singolare dell’entusiasmo dell’arcivescovo, cardinal Casariego, che lo accolse dicendo:

«La Chiesa del Guatemala è molto contenta di averla qui, Padre».

Degli incontri, è passato alla storia quello tenuto il 19 febbraio, onomastico di don Álvaro. Il sole picchiava forte ed era una giornata molto calda. Qualcuno domandò:

«Come fare per essere fedeli come don Álvaro?».

Scrosciò un forte applauso, al quale si unì volentieri il Padre. La fotografia di quel momento è ormai in tutti i centri dell’Opera: Il Padre ride apertamente, gioiosamente. Ma non stava bene: soffriva il caldo e aveva la gola secca. La notte ebbe sintomi di bronchite, con afonia, febbre e una grande spossatezza; furono annullati gli incontri previsti. Era al limite delle forze.

«Figli miei, sono contento del lavoro in queste terre. Continuate così. Mi dispiace molto non poter restare con voi. Pazienza! Prima ero triste, ma ora sono contento: ho offerto tutto al Signore per il lavoro nell’America Centrale. In Venezuela stavo molto bene e sono venuto qui con la speranza di parlare con molta gente. Ma Dio non l’ha permesso. Offriamoglielo con gioia».

Il cardinale lo aveva coperto di ogni sorta di attenzioni. Chiese e ottenne la sua benedizione. E il giorno della partenza lo accompagnò all’aeroporto. Per la commozione del Padre, lo scalo era stipato di figlie e figli suoi, quelli che non l’avevano potuto incontrare e ora lo salutavano tra le lacrime. Erano giunti quasi all’aereo quando il cardinale gli chiese:

«Padre, benedica la gente».

Ma se era lì il loro pastore, come avrebbe potuto… Lo sguardo di Casariego era quello di un figlio o di un devoto. E il Padre, superando la naturale ritrosia, alzò la mano e benedisse in silenzio la sua famiglia centroamericana. Gli occhiali da sole molto oscuri celavano l’intensa emozione.

50 anni di sacerdozio

Il 28 marzo 1975 Josemaría Escrivá compì cinquant’anni di sacerdozio. Non volle alcun festeggiamento, desiderava trascorrere quella giornata – che cadeva di venerdì santo – in raccoglimento e preghiera, praticando ancora quel «nascondersi e scomparire». La vigilia fece l’orazione a voce alta, aprendo il cuore al Signore a ai figli suoi che si trovavano con lui nella cappella.

«Aumentaci la fede!, stavo dicendo al Signore. Vuole che gli cheda questo: di aumentarci la fede. Domani non vi dirò nulla; e adesso non so cosa sto per dirvi… Vi chiedo di aiutarmi a rendere grazie a Nostro Signore per questo cumulo immenso, enorme, di favori, di provvidenze, di affetto…, di bastonate! Che pure sono affetto e provvidenza.

A cinquant’anni di distanza mi ritrovo come un bambino che balbetta. Comincio e ricomincio, ogni giorno. E così fino alla fine dei giorni che mi restano: sempre a ricominciare. Il Signore lo vuole, perché in nessuno di noi ci sia motivo di superbia, di stolta vanità. Dobbiamo stare fissi in Lui, pendere dalle sue labbra: con le orecchie attente, con la volontà pronta, preparati a seguire le divine ispirazioni.

Uno sguardo indietro… un panorama immenso: tanti dolori, tante gioie. E adesso, tutte gioie, tutte gioie… perché abbiamo esperienza che il dolore è il martellare dell’Artista, che vuol fare di ciascuno, della massa informe che ciascuno di noi è, un crocifisso, un Cristo, l’alter Christus che dobbiamo essere. Signore, grazie di tutto. Grazie infinite! Ti ho ringraziato sempre. E adesso molte bocche, molti cuori te lo ripetono all’unisono: gratias tibi, Deus, gratias tibi ! , perché non abbiamo motivi se non di ringraziare.

La vita di ciascuno deve essere un cantico di ringraziamento, perché come è stato fatto l’Opus Dei? L’hai fatto tu, Signore, con quattro buoni a nulla… stulta mundi, infirma mundi, et ea quae non sunt… hai cercato mezzi completamente illogici, del tutto inetti, e hai esteso il lavoro in tutto il mondo. Ti rendono grazie in tutta Europa, in diversi punti dell’Asia e dell’Africa, in tutta l’America, in Oceania. In tutti i luoghi ti rendono grazie.

Adoro il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, Dio unico. Io non capisco la meraviglia della Trinità; ma Tu hai messo nella mia anima aneliti, fame di credere. Credo! Voglio credere più di tutti. Spero! Voglio sperare più di tutti. Amo! Voglio amare più di tutti.

Tu sei chi sei: la Somma bontà. Io sono chi sono: l’ultimo straccio sporco di questo mondo marcio. E, tuttavia, mi guardi…, mi cerchi…, e mi ami. Signore fa’ che i miei figli ti guardino, e ti cerchino, e ti amino. Signore: che io ti cerchi, ti guardi, ti ami.

Quando vedo che capisco così poco delle tue grandezze, della tua bontà, della tua sapienza, della tua potenza, della tua bellezza… quando vedo che capisco così poco non mi rattristo: mi rallegro che tu sia così grande da non poter entrare nel mio povero cuore, nella mia misera testa. Dio mio, Dio mio, anche se non so dirti altro, è sufficiente: Dio mio! Tutta questa grandezza, tutta questa potenza, tutta questa bellezza…, mia! E io…, suo!

Gesù, Maria e Giuseppe. Sembrano più accessibili. Gesù, che è perfectus Deus e perfectus Homo. Maria, che è una donna, la creatura più pura, la più grande: più di Lei, soltanto Dio. E Giuseppe, che viene immediatamente dopo Maria: puro, virile, prudente, integro. Oh, Dio mio! Che modelli! Solo a guardare, vien voglia di morire di dolore: perché, Signore, mi sono comportato così male… non ho saputo essere all’altezza delle circostanze, non ho saputo divinizzarmi. E Tu mi davi i mezzi; e me li dai, continuerai a darmeli…, perché dobbiamo vivere sulla terra in modo umanamente divino.

Dobbiamo stare – ho coscienza di avervelo ricordato molte volte – in Cielo e sulla terra, sempre. Non fra il Cielo e la terra, perché siamo del mondo.Nel mondo e in Paradiso allo stesso tempo! Questa è la formula per esprimere come dobbiamo comporre la nostra vita, finché restiamo in hoc seculo. In Cielo e sulla terra, divinizzati, “indiati”; ma sapendo che siamo del mondo e che siamo terra, con la fragilità della terra: un recipiente d’argilla che il Signore si è degnato di utilizzare al suo servizio. E quando si è rotto abbiamo fatto ricorso ai punti, alle graffe…

Il Signore ha voluto depositare in noi un tesoro ricchissimo. Sto esagerando? Ho detto poco. Nei nostri cuori c’è abitualmente il Paradiso…».

Nel mese di maggio, il fondatore dell’Opus Dei compì il suo ultimo viaggio visitando il santuario di Torreciudad, allora quasi terminato. Rimase a lungo assorto a guardare il vasto polittico scolpito con scene della vita di Maria e, al centro, dall’alto verso il basso, il tabernacolo, la crocifissione e la venerata immagine della Madonna. In quei mesi ripeteva spesso come giaculatoria le parole bibliche: «Cerco il tuo volto». «Signore, ho una gran voglia di vederti in viso, di ammirare il tuo volto, di contemplarti!… Ti amo tanto, ti desidero tanto, Signore!».

Fonte:"Mia madre la Chiesa", Michele Dolz, Edizioni San Paolo.